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… una striscia di stoffa rossa ormai sbiadita e logora …

 

… «Mi chiamo Lorenzo Pepoli»…

Quella presentazione e quel cognome, detti così semplicemente, come fossero cose ovvie, anzi consequenziali all’avventura in corso, zittì la compagine dei tre, mentre il nuovo venuto, dopo essersi presentato, andò a sedere in una panca della cappella appoggiando i piedi sull’inginocchiatoio. Poi si girò verso la tomba e costatò:

«Vedo che la mattonella è già stata tolta. Complimenti Sig. Kuotzaidènis, c’è ancora molto, prima di sapere cosa c’è lì dentro?»

«No, direi una mezzoretta …»

«Bene! Allora aspettiamo.»

Ma passò quasi un’ora, durante la quale si udiva solo l’armeggiare di Ànghelos sul piccolo spazio sottostante la mattonella tolta.

«Bene, possiamo aprire.»

«Come funziona stavolta la”sottomattonella”?» Gli domandò Rosati.

«”Sottomattonella”? Bella, questa non l’avevo mai sentita… Beh, questa volta c’è semplicemente una maniglia. Se funziona ancora dopo tanto tempo, tirandola qualcosa succederà!»

«Vai, Ànghelos!» Sollecitò Veronica con un ansioso entusiasmo.

Si sentì un breve ferruginoso suono provenire dall’interno della tomba, poi uno scatto: la cornice di marmo bianco che si estendeva sotto la scacchiera, dividendole da altri ornati bianchi e neri sottostanti, si aprì per alcuni centimetri come un cassetto; Ànghelos inserì nella fessura creatasi le mani tastando l’interno del vano che in effetti era un vero e proprio cassetto.

«Mi sembra vuoto!... » Proclamò con un gran senso di delusione.

«Vuoto?...» si meravigliò Rosati.

« Vuoto?...» trasecolò Veronica.

«Vuoto? Non è possibile!» Affermò Pepoli, alzandosi finalmente dalla panca e avvicinandosi sospettoso agli altri tre e, soprattutto, al cassetto.

Ànghelos tirò a sé il cassetto aprendolo al massimo e permettendo così agli altri tre di riesaminarne l’interno.

Fu questione di pochi secondi, poi Rosati, Veronica e Pepoli si allontanarono lentamente dalla tomba, mentre il greco, poste le mani sul frontale del cassetto, lo spinse fino a chiuderlo completamente. Poi si chinò sulla scacchiera per ripristinare la mattonella, cosa per la quale occorsero svariati minuti.

«Io vado …» Disse poi sommessamente, riponendo gli attrezzi e avviandosi verso l’uscita della cappella, non senza lanciare a Pepoli uno sguardo fra l’inquieto e il minaccioso.

«Io vado con lui, avvocato…» Disse in fretta Veronica seguendo Ànghelos e prendendolo sottobraccio.

Uberto Rosati, in piedi accanto alla tomba, e Lorenzo Pepoli, seduto sulla panca, rimasero soli nella cappella. Sembrava, però, che l’uno non sapesse della presenza dell’altro, perché i loro sguardi non si incrociavano mai, come se volessero evitare che ciò accadesse. Apparentemente parevano essere addirittura in reciproca soggezione, ma non era così; entrambi, infatti, stavano pensando a come affrontare un dialogo che certamente avrebbe dovuto incominciare per cui il loro silenzio era acuito dal fatto che entrambi speravano che a cominciare fosse l’altro.

Fu Rosati il primo a parlare, ma sempre evitando di guardare Pepoli:

«Lorenzo Pepoli… Pepoli, eh! Omonimia o discendenza?»

«Discendenza…»

«Conte o marchese?»

«Semplicemente “signore”!»

Ancora silenzio per un po’, poi fu la volta di Pepoli a parlare, ma lo fece sempre a capo chino, seduto sulla panca e guardandosi i piedi:

«Cosa vi aspettavate di trovare là dentro?»

«Il tesoro dei Pepoli…, sempreché i Pepoli avessero settecento anni fa un tesoro. L’avevano?»

«No, non l’avevano!»

L’affermazione fu così secca, incontrovertibile e assoluta che Rosati fu costretto finalmente a guardare quel personaggio apparso nella vicenda quasi come un fantasma, ma sicuramente coinvolto e presente in essa: era sui cinquant’anni, non altissimo, capelli folti e brizzolati che gli coprivano quasi completamente fronte e orecchie e facenti tutt’uno con la barba e i baffi; occhiali con montatura grossa in tartaruga, naso accentuato, espressione del viso, almeno all’apparenza assente, come fosse assillato da pensieri non attinenti alla situazione in essere.

Rosati provò a insistere sull’argomento:

«Se lei, per cercare ciò che le interessa, è arrivato fino a questa cappella lo deve anche a me e ai miei compagni, come per altro noi lo dobbiamo a lei, lo riconosco! Se lei vuole, possiamo anche chiudere qui la storia, ma così facendo, se ciò che stiamo cercano esiste ancora, allora né lei, né noi, riusciremo mai più a trovarlo. Non le sembra?»

«Se non è qui, non esiste più… Inutile tentarmi!»

Il Pepoli si alzò dalla panca e girando le spalle a Rosati, si avviò lentamente verso l’uscita della Cappella, fermandovisi per l’attimo necessario a guardare la tomba di Taddeo e chinare leggermente il capo, come a riverirla o salutarla. L’avvocato lo seguì e dopo averlo affiancato, cercò ancora una volta di farlo parlare:

«E allora, Signor Pepoli, perché non mi dice lei cosa doveva esserci in quella benedetta tomba?»

L’altro continuò nel suo mutismo, fino a uscire dalla chiesa, mentre Rosati lo tallonava dappresso: «Su, Signor Pepoli, mi dica qualcosa!»… «Cosa dovevamo trovare, nella tomba di Taddeo? Me lo dica, io so che lei lo sa!»…«Perché ha detto che il tesoro che cerchiamo non esiste più?»…«Perché non mi vuole rispondere?»… Domande dette e ripetute passo per passo, domande a cui l’interlocutore non rispose alcunché e rimanendo del tutto muto, quasi estraneo.

Rosati si fermò a guardare Pepoli che si allontanava verso il centro della città.

 

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Lorenzo Pepoli non aveva voluto parlare con l’Avvocato Rosati perché costui era il suo avversario d’avventura, il nemico da sconfiggere, ma soprattutto perché era rimasto oltremodo frastornato alla vista di quel vuoto nella tomba.

Ora, però, camminando, si era un po’ ripreso e cominciava a rimuginare su quello che era capitato. Non poteva ancora credere che in quel vano che si era improvvisamente aperto non vi fosse nulla. Si ricordava benissimo, quasi a memoria, il passo del documento che citava: “… il sacrale tesoro sia in perpetuo protetto là dove con accorta umiltade fu da noi celato, sì che saldo tetragono sia verso li empi e li sacrilegi…”

È vero, nell’arco di tanti secoli era sempre possibile che qualcuno avesse cambiato quel “in perpetuo” in “provvisorio”. Bastava, per esempio, un ritrovamento anche casuale e chi l’avesse compiuto, si sarebbe certamente impossessato del “sacrale tesoro”. Possibile, ma molto difficile, visto la tipologia del nascondiglio e considerato che era all’interno di un luogo sacro e protetto da un ordine, quello Domenicano, che mai avrebbe permesso a un estraneo di violare una tomba; e quale tomba! Era anche possibile che gli stessi frati avessero saputo quello che la tomba conteneva oltre alle spoglie di Taddeo e che col passare del tempo si sarebbero poi decisi a recuperarlo... Mah!

C’era poi un’altra eventualità, forse più realistica: chi aveva nascosto il tesoro (evidentemente dopo il 1347, anno della morte di Taddeo, e a compimento della costruzione della sua tomba) era poi tornato a riprenderselo, per ragioni ovviamente sconosciute. E chi era poi costui?Mah! Forse quello delle iniziali “P.D.B.” che apparivano sui messaggi.

 

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Dallo studio, Veronica, pensò di fare una sorpresa a Ànghelos, e di raggiungerlo a casa sua; perché l’ultima volta che si erano visti le era parso molto demoralizzato, quasi disorientato dall’aver trovato vuota la tomba.

La ragazza giunse presto in via dell’Inferno, trovandovi il portone di casa aperto. Non stette neppure a suonare e si diresse verso l’uscio dell’appartamento dell’amico… ma anche questo era aperto. Strano… Entrò. Non c’era nessuno, non solo, ma la sua impressione fu di vedere una casa non più abitata. Non poteva capire il perché di questa sensazione, ma le fu immediatamente confermata dalla voce che sentì alle sue spalle:

«Il signor Kuotzaidènis se n’è andato, signorina.»

Era la vicina di casa di Ànghelos, la signora Agnese, che, vedendo qualcuno sul pianerottolo, aveva immediatamente colto l’occasione per fare un po’ di chiacchiere e passare così il tempo.

«Non sa dov’è andato?» Provò timidamente a domandare Veronica.

«No, signorina, ma era pieno di borse e valige, proprio come se non dovesse più tornare.»

«Grazie, mi scusi.» Sussurrò interdetta Veronica girandosi per allontanarsi.

«Simpatico davvero quel ragazzo – proseguì Agnese incurante che l’altra avesse interrotto la conversazione – davvero simpatico. Sempre gentile, educato, disponibile… A proposito, mi ha detto che se veniva una ragazza dovevo darle una busta. Ma solo se si fosse trattato di una ragazza. Lei si chiama Veronica, per caso?»

«Sì.»

«Allora è proprio lei. C’è il suo nome sulla busta, assieme a quello di un avvocato. Venga, entri, entri pure. La mia non è una gran casa, e mi scusi del disordine.»

«Si figuri…»

Veronica entrò in casa dell’anziana signora.

«S’accomodi, lo vuole un caffè?»

«No, grazie… Scusi, sa, ma avrei un po’ di fretta.»

«Sempre di fretta, voi giovani! Ma perché non pigliate ogni tanto una pausa? Si segga almeno un attimo.»

«Va bene, grazie. Ma mi dica, signora, di quella lettera che il signor Kuotzaidènis ha lasciato per me?...»

Agnese aprì un cassetto, ne estrasse la lettera e la porse a Veronica che guardandola e tastandola con le dita le parve che fosse vuota. Sarebbe voluta andarsene via subito e aprire la lettera con un po’ più di riservatezza, ma la curiosità era tale che non resistette:

«Mi dà un coltello, signora, per favore?»

Agnese glielo porse e Veronica tagliò la busta estraendone lentamente il contenuto: era una striscia di stoffa rossa ormai sbiadita e logora con scritto sopra una frase latina.

Veronica prese il telefonino in mano:

«Pronto, avvocato, cosa significa “Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria”?»

«Perché me lo chiedi?»

Veronica raccontò a Rosati gli avvenimenti degli ultimi minuti: la scomparsa di Ànghelos, la busta che aveva lasciato per loro, il breve e incomprensibile contenuto.

«Ci vediamo subito in studio, va bene?» La esortò Rosati.

«Corro…»

Agnese vide Veronica alzarsi e uscire quasi di corsa e senza neppure salutare… Sempre di corsa e sempre maleducati questi giovani d’oggi!

 

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