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… fra Romeo Pepoli e i Templari
c’è stata una fortissima simbiosi …

 

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Templari

Veronica porse a Rosati ciò che aveva trovato dentro la busta lasciatale da Ànghelos, e l’avvocato guardò la striscia di stoffa, forse cotone, e i suoi caratteri gotici.

«“Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria”. Questo, Veronica, è il motto dei Templari. »

«I Templari?»

«Sì! E ti dirò di più: questa striscia di stoffa, ora un po’ sbiadita, ma che una volta doveva essere di un rosso vivo e molto più lunga, è uno dei simboli che quei cavalieri portavano allacciati al loro pettorale.»

«E da dove viene questo nuovo e incomprensibile messaggio?»

«Non lo so, Veronica, bisognerebbe chiederlo a Ànghelos che ce l'ha fatto avere… forse l’ha trovato nella Tomba di Taddeo, quando l’ha aperta. Forse non era del tutto vuota, ma c’era questo pezzettino di stoffa che lui solo avrebbe potuto vedere e raccogliere di nascosto.»

«Può essere, avvocato, ma a parte Ànghelos e quello che ha potuto combinare, cosa c’entrano i Templari con Bologna e i Pepoli.»

Crose santa maria magione
La Croce di vicolo Borchetta, unica
traccia rimasta della scomparsa
chiesa di S. Maria della Magione

«Beh, io so solo che a Bologna i templari c’erano, e come! Avevano un’importante dimora in Strada Maggiore fra i vicoli Borchetta e Malgrado, presso lo scomparso convento di Santa Maria della Magione. Qualche coincidenza fra Pepoli e templari, d’altra parte c’è, come per esempio lo stemma, perché gli scacchi bianchi e neri sono anche l’emblema dei templari e la scacchiera una struttura emblematica fra le più usate da essi. E poi, ora che mi viene in mente, se lei guarda la moneta dei Pepoli, il famoso pepolese, vedrò che la croce coniata sul retro e proprio quella templare.»

pepolese recto 2
La croce templare sulla
monete dei Pepoli: il “Pepolese

«Se fosse così, significherebbe che il tesoro dei Pepoli e quello dei templari sono la stessa cosa.»

«Che i templari bolognesi ne potessero avere uno tutto loro, non è affatto da escludere… Anzi! Ora che mi ci fa pensare c’è anche un altro fatto che potrebbe avvalorare questa possibilità... È molto labile, quasi inconsistente, praticamente da non credere, ma c’è…» Veronica fissò il suo principale quasi a pregarlo di proseguire in questa sua disanima, e lui le sorrise:

«Ed è lo spostamento della Torre della Magione!»


Aristotele Fioravanti in una
iconografia moderna

Veronica spalancò gli occhi increduli:

«Come lo spostamento della Torre della Magione? Che vuol dire?»

Rosati fece la sua solita pausa, ma questa volta solo per riordinare le proprie idee.

«Vediamo da dove incominciare… Innanzitutto facciamo passare un secolo, un secolo esatto, dal 1345 al 1445. La Torre della Magione si ergeva in via Malgrado e non era altissima, 25 metri, ma era certamente massiccia, tanto da servire come campanile alla chiesa dei Templari, ovvero a Santa Maria della Magione. Fatto sta che fu deciso di spostarla di una quindicina di metri con tutte le fondamenta. L’operazione fu organizzata da un giovane architetto di appena venticinque anni, un certo Aristotele Fioravanti e riuscì perfettamente.»

«Davvero straordinario… Ora però mi deve dire che c’entra questa storia col presunto tesoro dei templari bolognesi.»

«Perché quella torre fu spostata così, nella sua interezza, e non abbattuta come tante altre? Alcuni sostennero e altri sostengono ancora, che demolire la torre significava perdere il tesoro ch’essa nascondeva o, peggio, renderne pubblica l’esistenza.»

«Mi sembra tirata per i capelli.»

«Sono d’accordo con lei, Veronica, fatto sta, però, che anche quando la torre fu abbattuta definitivamente nel 1825 corse voce che così fosse stato deciso per scoprire il tesoro che si nascondeva in essa. Tutte leggende, ma le leggende hanno sempre un’ombra di verità.»

Il discorso parve essere chiuso, ma dopo alcuni istanti di silenzio, Veronica pose sul tavolo un altro problema:

«Credo che al momento il vero mistero non siano più i Pepoli, gli indovinelli, le monete, i nascondigli segreti e ora anche i templari… il vero mistero diventa Ànghelos. Chi è Ànghelos Kuotzaidènis? E soprattutto che fine ha fatto?»

Veronica fissò Rosati come a sollecitarlo a dire il suo parere sulla questione.

E Rosati parlò:

«Se non se la sa dare lei la risposta, Veronica, non la posso certo dare io… però qualcosa possiamo fare. Domani prenda contatto con Santini e gli commissioni una ricerca su questo Ànghelos Kuotzaidènis e che faccia in fretta a scoprire chi è.»

«È una buona idea – sembrò concludere Veronica – ma a questo punto, visto che il greco sembra scomparso così all’improvviso, c’è anche da domandarsi chi esso sia realmente…»

«Santini, il nostro detective, ci saprà risolvere anche questo problema.»

 

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Lorenzo Pepoli era davvero irritato per aver subito uno smacco così offensivo per la sua famiglia e, oltretutto a causa proprio dei suoi antenati. Sì, perché non c’era dubbio che quel “sacrale tesoro” era dei Pepoli, era la stessa essenza su cui settecento anni prima si era costruita la fortuna della stirpe.

Decise di recarsi nuovamente in San Domenico e di riguardare ancora la tomba di Taddeo. Chissà che così facendo non avesse avuto un’ispirazione.

Per tutto il tragitto dalla sua dimora alla basilica, non fece altro che pensare a Ànghelos Kuotzaidènis, verso il quale provava certamente un astio acceso e risentito, ma anche una forte inspiegabile ammirazione.

Giunto alla Cappella del Santissimo Sacramento e guardatosi attorno per verificare che non vi fosse anima viva si avvicinò alla scacchiera. Sperava che la mattonella rimossa da Ànghelos non si fosse ancora saldata perfettamente, e così fu: la mattonella nera si staccò, la leva interna fu mossa e il cassetto nascosto si aprì.

Pepoli ne guardò attentamente l’interno cercando di scrutarne ogni angolo; non c’era davvero nulla, né un segno, né un oggetto, né altro che potesse dare una qualsiasi informazione… No, qualcosa c’era, una brevissima strisciolina di stoffa sbiadita, sgualcita e quasi incastrata fra il fondo del vano e la sua parte esterna. La raccolse, si assicurò che non vi fosse altro e rinchiuse la tomba, guardandola con un forte senso di malumore.

Mentre si avviva verso l’uscita della Chiesa, suonò il cellulare.

«Pronto!»

«Sono Pietro, Lorenzo.»

«Caro il mio “Monsignore”, dimmi, come mai questa sorpresa?»

 

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«Notizie di Ànghelos?»

« No, nessuna notizia. È proprio scomparso. Ho provato anche a telefonare, ma il suo cellulare non risponde.»

«E Santini, ha scoperto qualcosa su di lui?»

«È presto avvocato… Ma non ho ben capito! Siamo qui per lavorare e far andare avanti lo studio, o per parlare del tesoro dei Pepoli?»

Rosati, tacendo, raccolse alcuni dossier che aveva sulla scrivania e li esaminò svogliatamente, per richiuderli nuovamente dopo pochi minuti.

«Sa, Veronica – disse tenendo gli occhi abbassati – ieri sera ho approfondito la presenza dei Templari a Bologna scartabellando qua e là e sono giunto alla conclusione che fra Romeo Pepoli e i Templari c’è stata una fortissima simbiosi, quasi una complicità.»

«E su quale base, avvocato, è giunto a questa conclusione?»

«L’”imput” mi è stato dato dalla coincidenza cronologica che vede nel 1306 a Bologna, l’ascesa al potere di Romeo Pepoli e l’anno dopo, nel 1307, l’inizio in Francia (e in gran parte dell’Europa) della persecuzione dei templari. »

«Coincidenza cronologica? – domandò e si domandò Veronica – Mi sembra un “imput” molto debole e credo proprio che come ipotesi d’indagine difficilmente darebbe adito a ulteriori ricerche.»

«E brava Veronica! Sta davvero imparando il mestiere! Ma in questo caso l’ipotesi non finisce mica qui! Infatti, mentre divampa ovunque la caccia ai templari, solo nella Bologna governata da Romeo Pepoli, i cavalieri continuano a vivere indisturbati, lontani non solo dai sequestri dei loro beni, ma anche dalle torture e dai roghi. Non le sembra strano, Veronica?»

«Sì! Dette così le cose, avvocato, forse un giudice comincerebbe quanto meno a starla ad ascoltare… come in effetti sto facendo io.»

«In definitiva, a Bologna governava un Signore il cui emblema era lo stesso dei templari, e sotto il quale i Templari vivevano sostanzialmente tranquilli, soggetti solo ad alcuni deboli processi più formali che persecutori. Mi sembra molto più di una semplice coincidenza.»

 

Veronica si fece pensierosa e gli fece un breve cenno di assenso. Rosati continuò:


Jaques de Molay
(iconografia moderna)


Filippo il bello
(Ritratto d’epoca)

«Ma ce n’è un’altra ancora più importante. Ho scoperto l’esistenza di un personaggio a dir poco straordinario: il templare Pietro da Bologna. Era un nostro collega, un avvocato del ‘300, laureatosi in giurisprudenza a Bologna, che viveva in Francia e che aveva assunto la difesa del Grande Maestro dell’Ordine, Jaques de Molay, quando fu imprigionato da Filippo il Bello e sottoposto a giudizio della Santa Inquisizione.»

«Se era un suo collega, avvocato, avrà sicuramente vinto la causa.»

«Non so se lei, Veronica, sia troppo buona o troppo ruffiana… No, Pietro da Bologna non vinse la causa, anzi, comprese subito che non solo il Grande Maestro non aveva alcuno scampo, ma che anche lui, suo difensore, avrebbe subito la stessa sorte. Così scomparve all’improvviso dalla Francia, per riapparire sotto altro nome nella Bologna governata dai Pepoli,»

«Un momento, avvocato, ha detto Pietro da Bologna?»

«Sì, Pietro da Bologna.»

«E allora nella sua storia, avvocato, c’è un’altra coincidenza e, direi, molto, molto più interessante delle altre!»

 

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L
S. Raimondo da Paňaford di
Ludovico Carracci

Dopo aver confermato a Bolognesi che l’indomani sarebbe andato da lui, Lorenzo Pepoli chiuse il telefonino e se lo ripose in tasca. Per rispondere si era fermato accanto alla terza colonna di sinistra della navata centrale di San Domenico e quando, finita la telefonata, aveva alzato gli occhi non aveva potuto evitare di porli sulla vicina cappella di San Raimondo da Paňaford, dove questo frate, santificato e per lo più sconosciuto (e che visse ben cento anni!), è rappresentato mentre naviga nel mare tempestoso sopra il suo mantello come fosse una barchetta a vela. Bologna lo vide prima studente e poi, una volta laureato, compiere i primi passi in una carriera notevole sia come giurista sia come prelato pontificio prima a Roma, poi a Barcellona. Ma forse, i tanti che visitano la chiesa, non porrebbero alcuna attenzione a questo sia pur meritevole Santo, se il quadro in cui è raffigurato non fosse stato dipinto da Ludovico Carracci.

L’occhiata data a quel quadro da Pepoli fu però brevissima, perché proprio a fianco dell’altare su cui esso troneggiava, c’era un individuo che stava armeggiando non si sa cosa dietro un confessionale. Furono solo pochi attimi, poi l’uomo si girò, uscì dalla cappella il cui cancello era stranamente aperto e si avviò verso l’uscita della chiesa. Pepoli rimase oltremodo stupito. Che ci faceva Ànghelos in San Domenico e cosa aveva cercato e, forse, trovato, dietro quell’altare?

 

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«Un’altra coincidenza? Mi dica, Veronica, sono tutt’orecchi.»

Veronica si alzò, si diresse verso la libreria dello studio ed estrasse un faldone; sul cui dorso era catalogata la pratica “Caso Pepoli”, lo aprì, ne sfogliò con mani esperte il contenuto, e ne estrasse un foglio. Era la fotocopia di uno dei messaggi ritrovati da Ànghelos.

Guardò il foglio fissandone la sigla finale,

poi disse:

«”P.D.B.”, La firma dell’autore degli indovinelli era “P.D.B.”, non è, come avevamo pensato, “Pepoli Domini Bononiae”, ma “Petrus da Bononia”, “Pietro da Bologna”?»

Rosati rimase interdetto e a bocca spalancata per alcuni attimi e mentre il telefono cominciò a squillare, batté la mano sul bracciolo della poltrona e se ne usci con un impetuoso:

«Per la miseria!»

Veronica non ebbe il tempo di capire se quell’esclamazione fosse dovuta alla sua scoperta o all’interruzione causata dal telefono, perché, con movimento automatico, alzò la cornetta:

«Pronto, studio legale Rosati, con chi parlo?»

Sentita la risposta, Veronica pose la mano sul microfono della cornetta e annunciò:

«È Bolognesi, vuole parlare con lei.»

Rosati fece cenno di sì col capo, poi sollevò la cornetta del suo telefono da tavolo, mentre Veronica abbassava la sua:

«Pronto, monsignore, sono Rosati. Mi dica.»

Rosati stette ad ascoltare quanto Bolognesi aveva da dirgli, poi concluse:

«Certamente, nessun problema, domani alle 17 nel suo ufficio. Arrivederci.»

Veronica scrutò l’avvocato come per domandargli qualche chiarimento sulla telefonata, ma lui riprese il filo del discorso precedente interrotto come se il telefono non avesse mai suonato.

«Per la miseria! – ripeté con voce entusiasta,– Ha ragione lei, Veronica, è proprio così! È Pietro da Bologna, il Templare Pietro da Bologna che ha nascosto il tesoro e che, quindi, ha “inventato” e scritto gli indovinelli!»

«Il tesoro di chi?»

Questa volta Rosati, ch’era rimasto stupito quando Veronica gli aveva comunicato il proprio parere sulla sigla “P.D.B”, fu addirittura sconcertato, quasi disorientato da questa domanda solo apparentemente ingenua e non poté far altro che ripetersela ad alta voce:

«Già, il tesoro di chi?»

Fu Veronica a rispondergli e a rispondersi:

«Vede avvocato, se, come lei suppone, Romeo Pepoli era un templare, se ottenne il potere a Bologna dai templari, se protesse i templari, e se, come ho pensato io, la firma degli indovinelli è davvero quella del templare Pietro da Bologna fuggito dalla Francia e ritornato nella sua città natale dove dominavano i Pepoli, se tutti questi “se” fossero veri, allora potrebbe anche essere che il tesoro dei Pepoli, come fino ad ora l’abbiamo chiamato, sia in realtà il tesoro dei Templari, portato qui per sicurezza da Pietro.»

Rosati fissò Veronica tentennando leggermente il capo in su e giù come per assentire, ma in realtà per soppesare meglio le parole della donna. Poi si alzò, le si avvicinò e le posò la mano sulla spalla, guardandola fissa negli occhi:

«Sa cosa le dico, Veronica, che tutti quei “se” che condizionano la sua ipotesi sono dei “certamente” e quel “potrebbe anche essere” è semplicemente un “è”. Quello che abbiamo cercato e che doveva trovarsi nella tomba di Taddeo, è il tesoro dei Templari.»

Rosati si allontanò da Veronica e sempre fissandola negli occhi, si rimise a sedere dietro la sua scrivania.

«E sa perché ne sono sicuro? Perché c’è un’altra coincidenza cronologica che si realizza con la sua ipotesi: Taddeo Pepoli muore nel 1347, per cui è solo dopo quell’anno che il tesoro può essere stato nascosto nella sua tomba. Pietro da Bologna muore nel 1349, due anni dopo e poco prima che i figli di Taddeo, Giacomo e Giovanni, vendano ai Visconti la città di cui avevano ereditato la signoria. Di conseguenza si può tranquillamente dedurre che Pietro volle salvare il tesoro dei templari, nascondendolo proprio nella tomba inviolabile di Taddeo; nello stesso tempo, però, volle anche lasciare le tracce necessarie (gli indovinelli) per recuperarlo a tempo opportuno.»

Veronica assentì:

«Va bene, avvocato, tutto fila… Ma ora che abbiamo accusato Pietro da Bologna di appropriazione indebita, di occultamento di refurtiva e di violazione di sepolcro, vogliamo ritornare anche al lavoro e far funzionare questo studio… il suo studio legale.»

 

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