… ma che cos’è questo benedetto tesoro? … «Si accomodi pure!» La fronte di Pietro Bolognesi
era oltremodo corrucciata e il tono di voce più imperioso che invitante. «Cos’ho combinato ora, per essere
ricevuto con tanta freddezza?» Gli domandò Rosati non senza ironia. «Vedo che si ricorda dello “scherzo da preti” che mi ha tirato
qualche settimana fa.» «E come no! Quasi quasi ci
riuscivo. Ma pazienza, sarà per un’altra volta.» «No, non ci sarà un’altra
volta. Non c’è più nessun messaggio nascosto, nessun tesoro da scoprire,
nessun prete da prendere in giro.» Rosati fece una smorfia come se
non comprendesse bene quello che il prelato gli aveva detto: «Mi scusi, Monsignore, ma per smettere
di cercare qualcosa bisogna che questa cosa sia stata trovata. E questo non
mi sembra sia il caso.» Un attimo di silenzio fra i
due, quello necessario a Bolognesi di cambiar discorso: «Come mai solo, avvocato? Di
solito con lei c’è la sua collega, Veronica, mi sembra.» «Sì, Veronica Monti. Non c’è
perché non sapevo che potesse venire.» «Non è un obbligo che ci sia,
ma se viene, lo gradirei alquanto.» Rosati prese il telefonino in
mano, chiamò lo studio e pregò Veronica di venire, ricevendo da essa l’assicurazione
che sarebbe stata lì in breve. Gli parve di sentire nella voce della ragazza
quasi un entusiasmo, come se si aspettasse quella chiamata. Entrò il segretario di
Bolognesi per annunciare l’arrivo di Lorenzo Pepoli, che fu fatto entrare e
accomodare alla scrivania, dove già sedeva Rosati «Ci si rivede ancora, avvocato,
– disse – con niente in mano, ma ci si rivede.» «Sembra proprio così.» Confermò
Rosati. Anche Bolognesi si sedette
iniziando a parlare ai due: «Credo che tutti noi, nel corso
delle varie vicende che abbiamo dovuto affrontare, ciascuno per conto suo, ma
inesorabilmente convergenti, siamo stati ossessionati dal cercare di sapere
o, meglio, di capire qual era la meta delle nostre ricerche… il cosiddetto
tesoro.» Il silenzio degli interlocutori
era una conferma di ciò che il prelato stava dicendo, ma era anche segno di
una grande attenzione per capire dov’esso volesse andare a parare. «Forse, per tesoro – proseguì
Bolognesi – qualcuno avrà inteso un mucchio di gioielli e pietre preziose, un
altro uno scrigno di monete, un altro ancora opere d’arte di grande valore…
Ma non è così, vero Lorenzo?» «Sì, il tesoro era ed è
tutt’altro!» assentì Pepoli. «Allora – interloquì Rosati –
Lei, Conte Pepoli, sapeva tutto fin dall’inizio? » «Sapevo del tesoro e sapevo che
cosa fosse… ma non sapevo dove fosse! Poi è arrivato quel greco!» «Già, il greco! – sottolineò,
interrompendo, Bolognesi – Strano personaggio, questo, giunto da lontano e
immedesimatosi subito nella città di Bologna… c’è da pensare che ne fosse
parte integrante come un qualsiasi “bulgnàis ed pura ràza”… bolognese di pura razza.» «Cosa intende, monsignore?»
Cercò di meglio capire Rosati. «Anch’io non ti capisco.» Disse
Pepoli. «E dire, Lorenzo, che dovresti
essere stato tu il primo a capire, e subito, chi potesse essere questo
Ànghelos Kuotzaidènis; anche perché lui non ha mai
nascosto nulla: il nome e cognome sono quelli, la sua nazionalità è a tutti
gli effetti greca, il suo spirito e la sua cultura l’avete ben conosciuta… Ma
non vi dice proprio nulla questo nome: Kuotzaidènis?
Non sentite una qualche assonanza… come dire… indicativa di chi potrebbe
essere costui?» I due si guardarono
ripetutamente l’un l’altro per alcuni istanti poi all’improvviso e quasi contemporaneamente
sbottarono entrambi: «Che scemo che sono! Ma certo,
è un Gozzadini!...» «Gozzadini!
Per la miseria! Come non averci pensato prima… Kuotzaidènis…
Gozzadini…» Rosati pose una mano sulla
spalla di Pepoli, quasi lo volesse consolare: «E così, caro il mio conte,
anche nel terzo millennio la storia sembra ripetersi… Ancora un Pepoli e un Gozzadini, l’un contro l’altro armato, come sempre è
stato: Romeo Pepoli e Nanne Gozzadini; Taddeo
Pepoli e Brandiligio Gozzadini
e, via via, fino all’ Ottocento con le diatribe storico-letterarie fra Carlo
Pepoli e Giovanni Gozzadini …» Ma Rosati non poté proseguire
in questa sua cronistoria di lotte familiari, perché fu interrotto dal
segretario di Bolognesi: «Monsignore, c’è l’avvocato
Veronica Monti. Dice di essere attesa. La faccio entrare?» «Certamente!» Veronica entrò e dopo aver
salutato tutti, si accomodò in una sedia che era accanto al “suo” avvocato. «Stavamo parlando di Ànghelos Kuotzaidènis, – le disse Bolognesi non appena lei si fu seduta
– questo misterioso greco che non si sa neppure se lo sia davvero.» «È greco a tutti gli effetti –
tenne a chiarire Veronica – Abita nell’isola di Folegandros
(Policandro) ed è uno studioso di storia dell’arte
che risiede qui a Bologna per ragioni di lavoro. Non vedo che mistero vi
sia.» «Che precisione! E lei,
signorina, come lo sa, se posso saperlo anch’io?» Le chiese Pepoli, allungandosi
lievemente in avanti per poterla meglio osservare. Veronica si mostrò titubante e
guardò Rosati. «Parli pure, Veronica, sono
curioso anch’io di sapere la fonte delle sue notizie.» «È il risultato delle indagini
che abbiamo commissionato a Santini… Ne ho ricevuto il rapporto qualche
minuto fa, prima di uscire per venire qua; e ho fatto appena a tempo a
leggerne il consuntivo. Ma non è tutto. Nel rapporto si sottolinea anche una
cosa davvero straordinaria: la famiglia di Ànghelos, i Kuotzaidènis,
sono il ramo greco dei bolognesissimi Gozzadini,
alcuni dei quali, a metà del ‘200 espatriarono in Grecia e, precisamente, nell’arcipelago
delle Cicladi, di cui diventarono ben presto i
signori. Il feudo fu fondato da certo Angelo Gozzadini
e durò fino 1617, quando fu invaso dell’impero ottomano.» «Tutto esatto – interloquì
Pepoli – tranne che in un particolare: lei ha detto che divennero “Signori” delle Cicladi;
in realtà erano normalissimi pirati le cui basi di scorreria erano appunto
quelle isole…» «Mai, però, come il suo
ragguardevole antenato Giovanni Pepoli, impiccato con ignominia, per volontà
specifica di Papa Sisto V, perché colluso con Grazino da Scanello, noto
brigante e assassino della montagna bolognese attorno a Castiglione dei
Pepoli!» Chi si era introdotto nel
dialogo stava lentamente avvicinandosi alle spalle di Veronica, Rosati e
Pepoli, e dalla voce i tre capirono chi fosse, avendone immediata conferma
girandosi per guardarlo. «Ànghelos, – esclamò Rosati
quasi risentito – finalmente ti si rivede! Ma perché mai sei scomparso così
all’improvviso? «No, non è scomparso – precisò
Bolognesi, quasi a giustificare Ànghelos – è semplicemente venuto qua da me a
raccontare tutto e a portarmi quello che ha trovato nella tomba di Taddeo!» … quello che ha trovato nella tomba di Taddeo?…. quello che ha trovato
nella tomba di Taddeo?…. quello che ha trovato nella tomba di Taddeo?…. La frase sembrò rimbombare
nell’ampio ufficio dell’Arcivescovado, come un’eco tenebrosa in un’antica
cripta gotica, ma in realtà era il riecheggiare della stessa frase dalle voci
di Veronica, Pepoli e Rosati. «Parlo io, o parli tu,
Ànghelos?» Domandò Bolognesi. «Dica pure lei, Monsignore…» «E va bene. Inutile partire da
Palazzo Pepoli, non vi pare? Partiamo dalla fine… dalla Tomba di Taddeo e
dalle “visite” che le sono state
fatte: la prima fu durante la notte fra il 12 e il 13 giugno… Si ricorda,
avvocato? Si ricorda il casino che ha combinato con gli allarmi elettronici?
Fu bravissimo a giustificare ai frati la sua presenza di notte in San
Domenico e, soprattutto, a nascondere quella dei suoi amici dentro la chiesa.
Così finito il bailamme, lei fu ospite dei domenicani, mentre Ànghelos e Veronica
poterono esaminare la tomba indisturbati. Ma non vi trovarono praticamente
nulla: sette pepolesi ed un messaggio che riportava
tutto a Palazzo Pepoli. Lasciarono tutto lì, richiusero la tomba, e uscirono
tranquilli dalla chiesa mentre vi entravamo in pompa magna noi
dell’Arcivescovado con i nostri tecnici. La successiva visita alla tomba, avvenne
nella notte fra il 13 e il 14 giugno…» «Mi scusi Monsignore –
intervenne Veronica – ma si sta sbagliando la seconda visita alla cappella la
compiemmo io l’Avvocato e Ànghelos nel pomeriggio del 14 giugno, subito dopo
che Ànghelos si era ricordato che sul retro della tomba di Taddeo c’è
un’altra scacchiera.» «Errore, signorina Veronica, –
esclamò quasi trionfante il prelato – quella fu la terza volta che la tomba
fu aperta. La seconda, come le stavo dicendo, fu la notte precedente e la
fece Ànghelos da solo e di nascosto da tutti voi. Trovò il tesoro e lo portò
via. Ecco perché durante la terza visita, quella a cui lei, signorina,
accennava, non trovaste nulla. Dico bene, Ànghelos?» Il conte, l’avvocato e Veronica
si girarono quasi automaticamente verso Ànghelos come a pretendere che
finalmente anche lui parlasse. E lui obbedì a quegli sguardi. «E va bene, sì, sono stato da
solo di notte ad aprire la tomba!» «Due cose: – s’intromise Rosati
anticipando gli altri che pure avrebbero voluto dire la loro – primo, ma che
cos’è questo benedetto tesoro? Qui, infatti, siamo solo Veronica ed io a non
conoscere ciò che stiamo tutti cercando da mesi! Secondo: perché tu,
Ànghelos, proprio tu, hai agito da solo, tagliando fuori me e lei
dall’avventura che avevamo iniziato insieme?» Ànghelos guardò Rosati: «Non è il tesoro dei Pepoli!» «Questo lo so, è il tesoro dei
templari! Ma vai pure avanti, Ànghelos , a dirmi che cos’è in sostanza!» «È l’oggetto più banale e meno
costoso che possa esistere, quello che sarebbe impossibile da definire come “tesoro”, è un semplice pezzo di
stoffa, grande quasi come un asciugamano…. in greco "μανδύλιον" (Mandìlyon). Questo e nulla più è il tesoro dei
templari che ho trovato nella tomba Pepoli. Solo che su quel pezzo di stoffa
c’è impressa l’immagine del volto di Cristo, un’immagine “aceropita” (acheropita), come si dice in greco, “non fatta da mano umana”.» «Immagino, – osservò Veronica –
che questo pezzo di stoffa fosse ripiegato e legato da una funicella rossa su
cui era scritto il motto dei templari, quella che ci hai fatto pervenire.». «Sì, Veronica, proprio così. Ve
l’ho mandato per farvi sapere che la nostra avventura non era per nulla
finita con la mia scomparsa, ma che sarebbe continuata ancora... sia pure per
poco. E come vedi, siamo ancora qui a parlare del tesoro.» Sembrava a questo punto che la riunione
non avesse più ragione di continuare, ma Rosati non si ritenne soddisfatto: «Monsignore, si può vedere
questo pezzo di stoffa?» «Certamente.» Bolognesi si diresse verso il
grande armadio di mogano scuro che ricopriva tutta la parete di sinistra del
suo ufficio e ne apri l’anta centrale: «Se vi volete avvicinare, il
tesoro dei Pepoli, anzi il tesoro dei Templari è qui.» Dentro l’armadio, appoggiata
sull’ampio ripiano ad altezza di viso, c’era una teca quadrata in vetro e con
strutture metalliche dorate, più o meno di cinquanta centimetri per lato e
alta una decina. Sotto il vetro, ordinatamente ripiegato sui quattro orli, vi
era depositato un panno anticamente bianco, ma ora tendente a un giallognolo
appassito, al centro del quale si distingueva benissimo l’immagine del volto
sofferente di Cristo. Le sue sembianze si sviluppavano in pratica con un
monocolore di sanguigna, articolato in tutte le sue possibili tonalità, dal
chiarissimo rosato dato alle parti più in luce, al rosso più o meno vivo del
mezzo tono, allo scurissimo, quasi nero, delle ombreggiature più profonde e
sottili, con un risultato espressivo e cromatico che nessun pittore avrebbe
potuto mai realizzare.
«Incredibile!» Fu l’unico
commento che si udì sussurrare nell’ampio ufficio e che sembrò rimbalzare
all’interno dell’armadio; era la voce di Veronica, la quale non poté evitare di
accompagnare la sua estatica meraviglia, con un lento segno di croce. Il silenzio quasi ieratico che
si era venuto a creare fu all’improvviso interrotto dal Conte Pepoli: «E quella cos’è?» disse
indicando il margine basso della teca, dov’era stata applicata una targhetta
scritta a mano che indicava: “Dono
della famiglia Gozzadini”. Bolognesi fisso Ànghelos come a
chiedergli, anzi a imporgli di rispondere e Ànghelos non si fece attendere: «È un regalo dei Gozzadini, perché è stato un Gozzadini
a trovarlo e perché è stato un Gozzadini a portarlo
qui.» «Ma siamo stati noi Pepoli –
ribatté il conte – a porlo in salvo e a conservarlo per settecento anni nella
tomba del nostro grande antenato.» «Per la verità è stato Pietro
da Bologna a porlo in salvo e proprio perché temeva che i Pepoli non
sarebbero riusciti a salvarlo, giacché per denaro stavano per vendere anche
la loro Signoria, la città di Bologna.» La diatriba fra il Conte e
Ànghelos null’altro era se non la ripresa e la riproposizione (anche se più
in piccolo e per motivi ben più futili) di quell’antagonismo secolare che
aveva caratterizzato l’esistenza stessa di Pepoli e Gozzadini
e, vista l’inopportuna tensione che si era venuta a creare, Bolognesi
s’intromise con veemenza e risolutezza: «Adesso, però, basta, questo
non è tanto il mio ufficio, quanto un luogo sacro, ed io per questo problema
ho avuto piena delega dal nostro Arcivescovo. Per cui finitela. Non ce ne
frega nulla di Pepoli e Gozzadini… Questo è il
tesoro dei Templari ritrovato nella sede religiosa di San Domenico; i
templari erano un Ordine riconosciuto dalla Chiesa e che nella Chiesa
s’identificava; questo tesoro è un’immagine di culto e quindi la sua sede
naturale e legalmente riconosciuta è quella della Chiesa.» Ma, nonostante il rigore con
cui il prelato era intervenuto, Ànghelos non fermò la sua irruenza polemica: «E comunque fosse, i Pepoli non
c’entrano assolutamente nulla! Giuridicamente, una volta trovato, il tesoro
diventa in automatico un bene storico di spettanza dello Stato.» «E chi dice quest’assurdità?»
Se ne uscì il Conte Pepoli, aggiungendo la propria irruenza a quella di
Ànghelos. Quasi in automatico, tutti
volsero lo sguardo a Rosati, come a chiedere se l’affermazione di Ànghelos
fosse esatta e Rosati, vistosi chiamato in causa come legale, diede la
propria risposta: «Sì! Credo proprio che Ànghelos
abbia ragione. Però c’è un’alternativa. Il ritrovamento, in questo caso, è
avvenuto in una chiesa aperta al culto di proprietà della Chiesa Cattolica, e
il Concordato, all’art. 5, comma 1, stabilisce che “Gli edifici aperti al culto non possono essere requisiti, occupati,
espropriati o demoliti se non per gravi ragioni e previo accordo con la
competente autorità ecclesiastica”. Di conseguenza - ma siamo in sede
interpretativa - ciò che si trova in tali sedi, è sostanzialmente
inamovibile. In sostanza, la proprietà dell’oggetto è dello Stato, la sua curatela
è della chiesa, previo accordo fra le parti.» «Grazie, avvocato.» Disse
Bolognesi. «Grazie per modo di dire – precisò
di rimando Rosati – si tratta di un parere legale ufficialmente richiestomi,
per cui non mancherò di staccare parcella.» Mentre Ànghelos e Veronica si
guardarono l’un l’altro sorridendo divertiti, Bolognesi fissò serioso Rosati,
poi lentamente richiuse le ante del grande armadio: «Bene! – disse – io non ho più
nulla da dire. Spetterà alla curia verificare come riportare al culto questa
preziosissima reliquia, non senza aver prima fatto tutti gli accertamenti
storico-artistici del caso. In questo senso, Ànghelos ci sarà certamente
utilissimo, vista la sua conoscenza della storia e dell’arte di Bologna, dove
il “Mandìlyon”
è stato trovato, e della Grecia medioevale, da dove il “Mandìlyon” proviene.»
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