… una pietra
sostanzialmente squadrata,
Erano le 9,30 ed erano passati tre giorni dal sopralluogo;
Rosati, Veronica e Ànghelos erano nei Giardini Margherita, presso il punto in
cui il canale del Savena s’interra. Si scambiarono le ultime raccomandazioni,
poi Ànghelos e Veronica scavalcarono il semplice recinto di legno che cinge
il canale, scesero nell’acqua che scorreva placida, quasi fosse in attesa che
giungesse altra acqua per poter meglio avanzare verso valle. Se non avessero avuto gli stivali di gomma che
giungevano fino alle ginocchia, i due potevano sembrare i soliti patiti di
jogging: maglietta più o meno sgargiante, calzoncini cortissimi all’inguine,
uno zainetto contenente chissà cosa e alcune strane macchinette in mano; solo
che queste non sarebbero servite a controllare battiti cardiaci, pressione,
temperatura corporea, ecc., ma per connettersi e comunicare con Rosati che
mentre loro avanzavano alla cieca nel sottosuolo, li avrebbe attesi a Porta
Castiglione, per comunicare con un altro apparecchio equivalente, che avevano
raggiunto la meta. «Andiamo!» Disse imperiosamente Ànghelos rivolto a
Veronica. «Auguri.» disse Rosati, mentre i due entravano sotto
l’arco-ponte spostando alcuni folti rami di piante che pendevano da esso e
passando dal soffitto azzurro del cielo a quello buio e nerastro del
cunicolo. Rosati stette un secondo a osservarli mentre
scomparivano, poi si avviò velocemente verso Porta Castiglione. L’uomo… … stava
spiando i tre e ne aveva seguito tutti i movimenti, vedendo scomparire Ànghelos
e Veronica nel cunicolo e l’avvocato allontanarsi spedito. Decise di
seguire quest’ultimo che raggiunta Porta Castiglione, si era fermato stazionandovi
irrequieto, e scrutando ogni secondo uno strano apparecchietto che aveva in
mano, quasi un cellulare, ma un po’ più grande. L’uomo guardò
ansioso l’orologio, dimostrando così che la sua irrequietudine era la medesima
che stava provando l’avvocato. D’altra
parte l’avventura era unica per entrambi e quindi anche le reazioni emotive
non potevano essere diverse. Sotto terra, Ànghelos e Veronica percorsero una
quindicina di metri mentre alle loro spalle la luce esterna lentamente si
stava appannando; quando scomparve del tutto, furono avvolti in un buio
intenso e pervaso da uno strano e continuo effluvio fra l’odore ancora
gradevole dei muschi e quello quasi nauseante della terra umida e ammuffita. Accesero pressoché all’unisono le torce e la luce
improvvisamente accesa mostrò loro il cunicolo che parve essere uno
spaventevole ammasso informe di materiali almeno all’apparenza disgustosi, per
non dire abominevoli. Avanzavano lentamente nell’acqua senza parlare e in
attesa che un qualche segnale mettesse in moto gli apparecchi che avevano
stretti in mano. Si fermarono dopo cinque o sei minuti per prendere fiato. «Come va?» Domandò Ànghelos. «Bene… L’aria è respirabile, la luce c’è… Quanti
metri avremo percorso?» «Saranno una sessantina? Hai paura?» «Con te no, ma se fossi sola!» Ripresero il cammino e improvvisamente l’acqua parve
aumentare di velocità ed anche il suo lieve borbottio sembrò un po’ più intenso.
«Che succede?» Domandò Veronica. «Nulla di speciale. Il canale ha iniziato la sua discesa
verso la città; dovremmo essere nei pressi della chiesa della Misericordia o
averla appena superata. Se così è, abbiamo percorso circa la metà del nostro
viaggio.»
Accanto a Porta Castiglione l’avvocato Rosati
guardava alternativamente l’orologio e l’apparecchio elettronico che teneva
nell’altra mano. Le lancette sembravano ferme, ma il tempo tuttavia passava e
la lucina rossa a intermittenza del trasmettitore/ricevitore sembrava scandirlo. Quella macchinetta grande come un telefonino che
Rosati stava continuamente scrutando, avrebbe intercettato dal sottosuolo il
passaggio di Ànghelos e Veronica, anch’essi forniti di un apparecchio equivalente;
quando il segnale fosse scattato, ricevendo un impulso da sottoterra, Rosati
lo avrebbe rilanciato da sopra come risposta, e indicare ai due che avevano
raggiunto l’altezza di Porta Castiglione e che lì dovevano fermarsi e
cercare. Solo che i tre non potevano prevedere
l’imprevedibile…. A Rosati sfuggì di mano il suo trasmettitore che cadendo a
terra andò in mille pezzi. Rosati imprecò in malo modo. Contemporaneamente, sotto, anche Veronica imprecò,
perché mentre affiancava Ànghelos nel lento avanzare, era inciampata cadendo
malamente in acqua. Lui l’aiutò ad alzarsi: «Fatta male, Veronica?» «Un po’… alla caviglia. Ma non è nulla.» Rispose la
ragazza cercando di sedersi sopra la sporgenza che ne aveva causata la
caduta, una pietra sostanzialmente squadrata, che spuntava a fior d’acqua,
ricoperta dal solito strato di poltiglia (ma molto più sottile, quasi una
lamina di polvere bagnata). Vedendola, Ànghelos fu attratta dalla forma che
gli parve troppo perfetta perché si fosse formato casualmente dall’erosione
delle acque e del tempo. L’apparenza era quella di un vero e proprio
manufatto. Si chinò su di esso per vederlo meglio. «Aspetta che controllo.» «Ma non siamo ancora all’altezza della porta. Rosati
non ce l’ha segnalato!» «Lo so e se si tratta di un falso allarme
proseguiremo. Per qualche minuto in più non cambia nulla.» Ànghelos si chinò sulla pietra e la ripulì dalla
fanghiglia e da quant’altro la ricopriva: era più o meno similare, come
materiale e consistenza, a quella che aveva trovato a Palazzo Pepoli, solo
più piccola di quasi la metà. Col manico di una piccozza che aveva estratto
dallo zaino, batté sopra la pietra e i brevi, tenui rimbombi interni indicarono
che essa era cava, proprio come l’altra. Vi scavò attorno molto delicatamente
facendo ben attenzione a non danneggiarla e dopo pochi minuti essa poté
essere estratta. La sollevò da terra e udì all’interno un brevissimo lieve
tintinnio. Guardò Veronica sorridendo: «Portiamola fuori da qui.» «Ma questa pietra è ciò che cerchiamo?» «Direi proprio di sì. Dentro si è mosso qualcosa
tintinnando… Scommetto che sono monete. L’apriremo a casa mia, poi vedremo
cosa c’è dentro.» Gli occhi di Veronica brillarono: «Prima, però, baciami…» Gli occhi di Ànghelos, invece, parevano
disinteressati, ma il sorriso era smagliante: «Fallo tu… io ho le mani impegnate!» L’uomo… … vide la
scena come se assistesse a un film muto: la caduta a terra dell’apparecchio,
l’avvocato che si chinava e lo prendeva in mano, il suo sguardo disperato
mentre lo scuoteva per verificarne il funzionamento e la rabbia con cui lo
gettava in un angolo della Porta. Poi lo vide correre verso i Giardini
Margherita e attraversare col rosso il viale di circonvallazione schivando un
motorino e due fuoristrada. Gli unici “sonori” che udì, furono i clacson dei
veicoli, le maledizioni dei conducenti e, di rimando, l’imprecazione
dell’avvocato. L’uomo lo
seguì camminando e si fermò anche ad aspettare il verde, tanto sapeva benissimo
dov’era diretto, al canale dei giardini, nel punto in cui s’interrava e da
dove, prima o poi, sarebbero usciti – necessariamente! – Ànghelos e la donna. Che l’uomo
fosse calmo era solo un’apparenza, in realtà lo attanagliava una forte inquietudine;
era indubbio, infatti, e l’aveva visto chiaramente, che era intervenuto un
imprevisto che, se non ancora decisivo, certamente lo sarebbe potuto anche
essere. Se i tre
“ricercatori” avessero infatti fallito, il fallimento sarebbe ricaduto anche
su di lui. Rosati vide Ànghelos e Veronica uscire dal tunnel e
si alzò dall’argine in cui si era seduto in attesa. «L’apparecchio non ha funzionato… – disse quasi
rassegnato e senza preamboli – mi dispiace. Poi vi racconterò.» «Fa nulla, la fortuna ci ha aiutato, – lo confortò
Ànghelos – siamo giunti comunque sotto Porta Castiglione.» «Trovato niente?» La voce dell’avvocato era
diventata improvvisamente meno tesa. «Fatto – rispose Veronica – l’abbiamo, è questo.»
Rispose Ànghelos mostrando la pietra. «Interessante.» Ora sul volto dell’avvocato era di nuovo apparso un
sorriso quasi luminoso. L’uomo… … non
sentiva il basso parlottare dei tre, ma dalla posizione in cui era, poteva
distintamente vedere il volto dell’avvocato e proprio dal mutamento delle sue
espressioni, capì che nonostante il contrattempo, la ricerca si era conclusa
positivamente. Vide anche
lo strano oggetto in mano a Ànghelos. Non sapeva in effetti cosa fosse, gli
sembrò una scatola di scarpe un po’ più grande dell’usuale, ma forse – pensò –
neppure quei tre sapevano cosa fosse né tanto meno cosa potesse contenere,
sempreché fosse un contenitore. Gli venne
il dubbio che vi fosse inciso qualcosa sopra, ma se fosse stato così,
l’avvocato non avrebbe mancato di guardarla attentamente e di cercare di
capire subito di cosa si trattasse. Ma non ebbe
più tempo per pensare a ciò che era successo, perché i tre si riunirono
sull’argine e si avviandosi subito verso l’uscita del giardino. Con un flessibile elettrico, ma con tanta
delicatezza, Ànghelos cominciò a incidere la pietra e la polvere che si
alzava dall’incavo che la sega stava incidendo su di un lato di quella strana
“scatola”, sembrava la nebbia, densa da dove proviene e sempre più lieve e
diradata nell’aria sovrastante. Finalmente Ànghelos spense il motorino del
flessibile che abbandonò sul tavolo, e ripulita la pietra dai residui di
polvere, prese uno scalpello inserendolo nell’intaglio che si era creato e
facendo leva su di esso, ne sollevare i lembi come fosse diventata un coperchio.
E così la pietra fu aperta agevolmente. «Ecco fatto… – sussurrò soddisfatto Ànghelos – Come
supponevo è cava… vediamo cosa nasconde questa volta.» Allungò la mano dentro la pietra e ne estrasse una
cartapecora scritta e cinque monete. «Ecco qua lo scritto e le monete, certamente pepolesi di primo conio.» «Strano, – osservò Rosati – ce n’è uno di meno.
Chissà cosa significa.» «Non lo so, né riesco a immaginarlo.» – disse
Ànghelos prendendo delicatamente fra le mani la cartapecora di cui scrutò
silenzioso lo scritto, prima di girarla verso gli altri due, perché anch’essi
potessero leggerla. La voce di Rosati ne scandì il contenuto: «Poi che la
bassa Altura fu mozzata
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