Sandro Samoggia
SFIDA A TAROCCHI

 

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Capitolo 9

Il Mondo

 

 

Erano le sei e mezzo di sera. Frate Mondino stava facendo il solito giro d’ispezione alla grande chiesa ormai deserta, prima di serrarne il portone; con lui due poliziotti di scorta.

Il nome completo del frate era Mondino Dogliani, e quindi, come “Mondo”, poteva essere una possibile vittima dell’assassino dei tarocchi. Era stato proprio lui, alla notizia del collegamento fra le carte ed i nome degli assassinati, ad informarne i carabinieri, autorizzando di conseguenza la prevista protezione. Ma la cosa lo disturbava e se nei primi tempi era stata anche piacevole, avendo instaurato un rapporto quasi d’amicizia con gli uomini della scorta, col passar del tempo la loro presenza diventava sempre più ingombrante e del tutto avulsa all’attività della sua missione pastorale. Non era infatti facile sentire e vedere quei due strani “angeli custodi” in divisa pronti ad intervenire contro uno intenzionato ad ucciderlo mentre officiava la Messa, o confessava un peccatore, o usciva per visitare un ammalato o un anziano a casa. Aveva parlato della cosa anche con il suo superiore, ma era stato rassicurato: «Siamo ormai così pochi in questo convento che è meglio un frate sorvegliato che un frate morto.»

E così fra Mondino, da buon religioso ligio all’ordine domenicano cui apparteneva, sopportò come un sacrificio quella strana, costante compagnia che da quasi due mesi lo accompagnava ovunque e che ne tutelava la vita fino a quando si rinserrava nella sua silenziosa e solitaria cella.

La chiesa era immersa in una debole penombra dove colonne, monumenti e cappelle cercavano di ancor più appannare la soffusa luce serale che entrava dal portone spalancato sulla piazza e dalla grande vetrata rotonda che gli si elevava sopra. Il silenzio era assoluto ed il lieve ticchettio dei lenti passi dei tre sembrava ancor più sottolinearne la quiete quasi sacrale. I tre camminavano lungo la navata di destra, il frate verificando che tutto fosse a posto, i due della scorta attenti a che nulla gli capitasse. Giunsero davanti alla grande Cappella dove fra Mondino, si inginocchiò reverente; poi, rialzatosi, si soffermò un attimo per verificare a che punto fossero i lavori di restauro. Da tempo era stata notata un’infiltrazione d’umidità che dall’alto scendeva su tutta la parete sinistra, intaccandone anche i preziosi affreschi, per cui parte dell’ambiente era coperta dai pontoni da cui, però, si potevano intravedere i lavori dei restauratori.

Michelangelo S        Michelangelo S
L’arca di San Domenico fra due delle statue di Michelangelo

«Padre – disse uno della scorta – glielo volevo chiedere da tempo: l’altare di questa cappella mi sembra molto bello. Mi può dire chi l’ha fatto?»

Il frate lo squadrò sbalordito: com’era possibile che ci fosse qualcuno a Bologna che non conoscesse quell’opera?

«Per la verità, caro il mio Giovanni, quell’altare non è solo un altare, ma è anche e soprattutto la Tomba di San Domenico, ed è uno dei maggiori complessi scultorei esistenti al mondo.»

«Sa, io sono di Manfredonia…» Sembrò scusarsi Giovanni.

«Vi hanno lavorato Nicolò Pisano per il sarcofago, Nicolò dell’Arca, per il coperchio e Michelangelo per tre delle statue.»

«Michelangelo?»

«Sì proprio lui. Ma a parte questo, l’insieme è davvero bellissimo, non solo come capolavoro artistico, perché anche l’opera degli altri due scultori non è certo da meno, tutt’altro!, sia come espressione di spiritualità medioevale… Dentro c’è il corpo di uno dei più grandi Santi e Dottori della Cristianità. Senza contare che per completare il tutto, lassù, sulla semicupola, c’è l’affresco di Guido Reni che rappresenta la Gloria di San Domenico. Adesso si vede poco, ma domani, quando la chiesa sarà illuminata, vedrai che splendore.»

Guido reni
L’affresco di Guido Reni
on l’assunzione in  cielo di San Domenico

Il frate guardò Giovanni, sorrise e riprese il suo lento andare per la chiesa fino a giungere quasi al portone centrale che avrebbe poi dovuto chiudere. Qui, nel riquadro di luce che s’intagliava fra le colonne interne della chiesa, apparve un uomo in tuta che spingeva un pesante carrello con due pesanti sacchi sopra. Aveva un berretto in testa ed una mascherina antismog sulla bocca.

«Padre – disse – faccio a tempo a portare ‘sta roba prima che chiuda?»

«Che cos’è?» chiese fra Mondino, mentre gli uomini della scorta gli si avvicinavano a protezione.

«È scagliola, serve ai restauratori per i lavori in cappella; l’aspettavano nel primo pomeriggio, ma ci sono stati dei disguidi… Se me la fa portare là mi farebbe proprio un gran piacere. Domattina ho altre consegne e avrei dei problemi.»

«Vada pure, ma prima si tolga il berretto… in fondo siamo in chiesa.»

«Grazie, grazie davvero.» rispose l’uomo accennando un breve inchino e togliendosi il berretto.

«Quella mascherina che cos’è?» chiese Giovanni, con tono ben più serio di quello usato dal frate.

«Allergia… Non ci crederà, ma sono allergico alla polvere di gesso e fuori ne ho un furgone pieno.»

L’uomo si avviò verso la cappella spingendo a più non posso il suo pesante carrello.

«Buffo! Conoscevo un pizzaiolo – disse Giovanni – che era allergico alla farina. Anche lui lavorava sempre con una mascherina in faccia… Proprio buffo.»

Quando l’operaio ritornò col suo carrello vuoto, si rivolse immediatamente al frate:

«Non so come ringraziarla, padre…» disse rimettendosi il berretto in testa.

«Dove l’ha messa, la scagliola?»

«Ho pensato di scaricarla dietro l’altare, così non si vede. Avvisa lei i restauratori che l’ho portata?»

«Sì, glielo dico io domattina… Vada pura, che debbo chiudere la chiesa.»

Verso le 9,30 della mattina dopo giunsero in San Domenico i quattro restauratori, per riprendere il lavoro interrotto la sera prima nella Cappella del Santo e fra Mondino, sempre accompagnato dalla scorta, li avvertì immediatamente che c’erano per loro due sacchi di scagliola, depositati dietro l’altare. Quello ch’era forse il direttore dei lavori rimase seccatamene meravigliato:

«Due sacchi di scagliola? Ma siamo matti? Dobbiamo far solo dei ritocchi a qualche affresco e non intonacare l’intera cappella! Mi faccia vedere, padre.»

I due sacchi erano lì dove aveva detto il frate e il restauratore, avvicinandosi, li guardò con una smorfia di disgusto. Estrasse un temperino e, infranto uno dei sacchi di carta, ne smosse il contenuto per esaminarlo meglio.

«Pessima qualità, grana grossa, poca consistenza… e poi ha preso anche dell’umidità; li vede questi grumi scuri? Forse è anche ammuffita... E questo cos’è? Per Dio, è una mano…»

Il Frate si fece il segno della croce, sia per la bestemmia che per la macabra scoperta, mentre Antonio avanzò velocemente verso il sacco:

«Fermi tutti, non toccate più nulla e allontanatevi.»

Prese in mano il cellulare e chiamò la Centrale.

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Il Maresciallo Susanna Simoni era sul luogo del nuovo delitto e guardandosi attorno, non poté fare a meno di ripensare alla relazione del padre e a quanto vi stava scritto in riferimento al “Mondo

 “TRIONFO 20 – IL MONDO”

Mi è stato estremamente difficile trovare un’indicazione atta a stabilire con certezza dove potrebbe essere ritrovato il corpo riferito a questa carta.

Nicolo A Guglia
La cimosa dell’arca

L’unica, remota possibilità l’ho rintracciata nell’Arca di San Domenico, la cui sommità (tecnicamente detta “cimosa”) mostra Dio e il Creato, ovvero il “Mondo”, che Nicolò dell’Arca simboleggia con un globo da cui scendono lateralmente serti di frutti e foglie (la terra ed i suoi prodotti) e i delfini (il mare). Dio sovrasta e domina il mondo e, contemporaneamente lo tiene in mano quasi a proteggerlo.

Anche nella carta del corrispondente trionfo, il mondo altro non è che la rappresentazione grafica del creato, sintetizzato anche qui da un globo contenente mare, cielo e terra, globo su cui impera sì un dio, ma un dio pagano: Mercurio (sarebbe stato per altro blasfemo – e quindi impossibile per il tempo in cui la carta da gioco fu ideato – disegnarvi l’immagine del Dio Cristiano).

In conclusione l’associazione fra il trionfo e la cimosa dell’Arca è a mio parere perfetta, sia come simbolismo generale, sia soprattutto, come rappresentazione ed impatto scenografico.

D’altra parte non ho altra indicazione da dare, come alternativa a questa, consapevole che portare un cadavere nella Basilica di San Domenico, all’interno della Cappella del Santo e proprio sotto la sua Arca è decisamente impossibile.

E invece era stato possibile! Anche “il Mondo” aveva avuto la sua vittima e l’aveva fatta trovare proprio là dov’era stato previsto.

Il Giudice per le indagini preliminari, Dottor Gervasi, guardava come sconsolato Susanna quasi a chiederle consiglio su come agire e la risposta, seppur vaga, non si fece attendere:

«Da come è ridotto il cadavere è difficile anche verificare se ha indosso un documento per identificarlo. Vedremo cosa decideranno i RIS, non appena arrivano. Sono certa però che il suo nome sarà adattabile alla parola “Mondo”.»

«Anch’io, Maresciallo, – confermò il Giudice – ne sono convinto. Siamo dove suo padre ha indicato il ritrovamento di questo cadavere e quindi… Ma vede, Maresciallo, mentre capisco, e suo padre ne è un esempio, la possibilità di individuare dei luoghi corrispondenti alle carte da gioco, io non so come faccia l’assassino a trovare vittime con un nome adatto.»

«Se sapessimo come fa, forse sapremmo anche chi è. In questo caso, sulle anagrafi che abbiamo a disposizione non abbiamo trovato nessuno che abbia un nome coerente alla parola “Mondo” e, se non ci fosse stato frate Mondino che ci ha chiamato, non avremmo saputo nemmeno della sua esistenza. Eppure il frate è vivo e al suo posto è stato ammazzato un altro che certamente risulterà avere un nome abbinabile alla carta. Come ha fatto, lui, a saperne più di noi?»

«Sembra quasi sia dotato di divinazione…»

«Vista che si tratta di tarocchi, Signor Giudice, non si faccia sentire da qualche giornalista.»

Giunsero proprio in quel momento i R.I.S. guidati dallo stesso Generale Tulipano, e si misero subito all’opera. Dopo i primi rilevamenti compiuti, il generale fu avvicinato dal Giudice che gli chiese se vi fossero già elementi certi da riferire.

«No, è un po’ presto – rispose il generale. – Direi che è morto da ventiquattrore, ma con beneficio d’inventario. Il colpo mortale è stato dato, come il solito, da un colpo di pistola in testa, nei pressi della tempia. Il corpo non è così malridotto come mostrano le apparenze, c’è solo scagliola sparsa ovunque, che ha operato come carta assorbente del sangue fuoriuscito dalla ferita. Fattori secondari che non impediranno un accurato esame necroscopico; sarò più preciso nel pomeriggio o, al massimo, domattina.»

«Sappiamo almeno chi è il morto?» chiese il Giudice.

«Negativo. Non abbiamo recuperato alcun documento idoneo all’identificazione. Se però dovessi darle un mio parere, ben poco scientifico, dall’aspetto generale del cadavere, direi che è uno zingaro, forse un Rom: ha grossi anelli artigianali alle dita, orecchini vistosi, catena al collo e vestiti non sgargianti, ma decisamente inusuali.»

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L’intuizione del Generale Tulipano si rivelò azzeccata appena un paio d’ore dopo, quando una giovane Rom accompagnata da due piccoli bambini, uno in braccio ed una per mano, si presentò ad una stazione dei Carabinieri per denunciare la scomparsa del marito il quale si era allontanato la mattina prima, per non fare più ritorno. Dalla descrizione fatta dalla moglie, l’uomo coincideva col cadavere ritrovato in San Domenico, ma non ci fu bisogno di un riconoscimento formale, in quanto non vi erano dubbio che fosse lui: il suo nome, infatti era Monaldo Dominèch.

Nel pomeriggio del medesimo giorno, fu pure ritrovato il furgone “Ape” ch’era servito a commettere l’omicidio di via del Carro e, con non poca sorpresa degli inquirenti, si scoprì che lo stesso mezzo era stato usato per trasportare anche il cadavere di Dominèch in San Domenico; le analisi delle tracce di sangue trovate su di esso dimostrò ch’esse appartenevano a due persone diverse, appunto le vittime del “Carro”, l’arrotino, e del “Mondo”, il Rom. Ma ancor prima della prova del sangue, il fatto si dimostrò con i residui abbondanti di polvere bianca sul pianale del furgone, polvere che risultò essere scagliola e dello stesso tipo di quella rinvenuta nella Cappella del Santo.

Un punto fermo di questo nuovo delitto era il fatto che l’assassino questa volta si era mostrato in prima persona, il che dava una qualche possibilità d’indagine in più, ma molto labile, quasi imperscrutabile; chi l’aveva visto, infatti, Frate Mondino e i due uomini della sua scorta, non riuscirono – né avrebbero potuto – farne un identikit attendibile, perché in realtà non l’avevano visto neppure quel tanto da potersi fare un’idea di come potesse essere. Innanzitutto, portava la mascherina protettiva e già questo impediva la vista pressoché di tutti i lineamenti del viso; il soggetto, poi, era apparso quasi all’improvviso, inquadrato alle spalle dalla luce proveniente dal portone aperto della chiesa, per cui la parte scoperta del viso era rimasto nell’ombra e, quindi, anch’essa indistinguibile; sì, forse i pochi capelli che si erano intravisti quando s’era tolto il berretto potevano anche essere castani chiaro, ma era il colore naturale o era la luce esterna che, illuminandoli da dietro, li schiariva quasi fossero evanescenti? Sempre la mascherina, poi, coprendogli bocca e naso, alterava la sua voce, sicuramente maschile e non di un giovanissimo, ma nulla più come indicazione identificativa; infine, i tre testimoni si mostrarono molto dubbiosi anche sull’altezza dell’uomo, sempre piegato sul carrello dei sacchi, o per appoggiarvisi nei momenti in cui era fermo, o per spingerlo quando si muoveva.

Il furgoncino era stato trovato parcheggiato davanti ad un passo carraio. I vigili urbani erano stati chiamati perché impediva l’uscita di una macchina e, grazie al cielo, uno degli agenti si era ricordato dell’“Ape” di via del Carro, chiamando quindi i carabinieri. Era per altro evidente che l’assassino, parcheggiando il motoveicolo in quel modo, voleva intenzionalmente farlo ritrovare dagli inquirenti. Dopo qualche giorno analizzando le tracce di DNA trovate all’interno della cabina del furgone, si scoprì che alcune erano dell’arrotino, il che era più che normale, ma altre, più recenti, erano dello stesso Dominèch. Il fatto dimostrava che il Rom era entrato nell’abitacolo il che fece intuire agli inquirenti la dinamica dell’omicidio. Dominèch, come tutte le mattine, era uscito per stanziare nei pressi di un semaforo e chiedervi l’elemosina; l’assassino l’aveva quindi fatto salire adducendo una qualche scusa e, magari, attirandolo con una mancia che non si poteva rifiutare, per portarlo poi là dove l’avrebbe ucciso.

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