CAPITOLO 8
La vettura si fermò all’angolo fra via D’Azeglio e via Mirasole Grande ed il vetturino si rivolse a noi, suoi trasportati, dicendo: «Oltre non vado. Meglio star fuori da Borgo Ballotte: si sa quando si entra e non quando si esce e come si esce… Comunque siete arrivati: da qui si entra nel borgo ... Sono due Carlini… » «Va bene così, – gli disse Luciano dandogli quanto richiesto – sappiamo come muoverci…» Mentre il vetturino veniva pagato, Holmes si rivolse a Luciano: «Chiedigli quanto vuole per fermarsi qui ed aspettarci; un’oretta potrà bastarci.» Dopo un breve parlottio, Luciano estrasse dal borsellino altre monete e le diede al vetturino, che una volta scesi, andò a parcheggiare davanti ad una piccola chiesa che fronteggiava via Mirasole; entrammo nel borgo e, camminando sotto portici piuttosto angusti, giungemmo in una stradina molto stretta sul cui sfondo si ergeva un’altra chiesa che sembrava sorgere da una imponente scalinata; niente male come visione scenografica, con tutti quei monti che ne facevano cornice. Vista l’attenzione che avevamo posto all’edificio, Luciano ci ragguagliò informandoci che eravamo su via Miramonti e che la chiesa era Santa Maria delle Febbri.
Subito dopo arrivammo alla meta che Holmes s’era prefisso di raggiungere: l’osteria Tagliavini. Entrammo e ci sedemmo ad un tavolo. Il locale mi sembrò meno ospitale dell’Osteria del Sole, più vasto, ma con ancora meno luce e pervaso da un eccessivo odore di vino, quasi di mosto malfermentato e non agevolmente sopportabile. I tavoloni di legno erano quasi tutti liberi; solo in alcuni erano sedute uomini solitari che mi parvero essere semplici sfaccendati abbandonati a se stessi. In un angolo, con un bicchiere in mano ancora pieno, una femmina oscena, priva d’età, dava l’idea di una tristezza insopportabile per lei e per chi l’avesse guardata. L’oste non si scostò dal suo bancone, limitandosi a guardarci dubbioso, prima di chiederci in modo scorbutico, come se fosse disturbato dalla presenza di nuovi clienti, che cosa volevamo. «Bere e mangiare qualcosa. – Gli rispose Luciano dopo averci interpellato – se ci dice cosa potete offrirci.» «Vino, pane e salame.» «Vanno benissimo.» Assentì Luciano dopo aver sentito il nostro parere.
Dopo alcuni minuti, l’oste si degnò di portarci quanto ordinato richiedendo il pagamento di cinque Carlini. Holmes se ne tolse dieci dal taschino e li posò sul tavolo. L’oste li guardò: «Ho detto cinque!» «Questo è il vostro avere…» disse Luciano, sempre su suggerimento di Holmes. «Cosa volete da me?» Chiese l’oste guardando fisso negli occhi Holmes, avendo ben capito che il suo vero interlocutore non era quel giovane che parlava italiano, ma l’altro, quello che quando apriva bocca non si capiva cosa dicesse, ma che aveva uno sguardo tagliente e risoluto. «Enrica Zerbini!» Disse semplicemente Holmes, senza che ci fosse bisogno di traduzione. L’oste prese una sedia, si avvicinò a noi con essa, le si pose a cavalcioni e disse con voce fortemente ostile: «Cosa volete ancora da quella povera ragazza?» «Sappiamo anche noi che è una vittima e non una colpevole.» Assicurò Holmes, e quando queste parole furono tradotte da Luciano, mi parve che la voce dell’oste diventasse meno dura: «E allora?» «Molti però dubitano sull’assoluzione del tribunale che l’ha giudicata e credono che ad uccidere l’orefice sia stata proprio lei. Solo in Borgo Ballotte sono tutti convinti del contrario. Vorrei capire il perché.» «Perché qui ci conosciamo benissimo l’un l’altro. Enrica è una di noi e sappiamo che non è il tipo che uccide… anzi non farebbe mai male a nessuno… Più facile che lo faccia a se stessa…» «Mi hanno detto che è di famiglia povera…» «Chissà perché quando voi altolocati dite “di famiglia povera…” lasciate sempre sottintendere “… e quindi delinquente…”» «Le assicuro che non è così, almeno per quanto mi riguarda…. Forse è colpa dell’amico Luciano che sta riportando male quello che ci diciamo….» Dopo aver tradotto quest’ultima asserzione di Holmes, Luciano si rivolse all’oste direttamente e non più come interprete, dando inizio ad un serrato dialogo di cui, ovviamente, io ed Holmes non potemmo capire nulla, pur essendo interessatissimi ad esso. «Cosa state dicendo?» Chiesi cercando di interromperli. «Li lasci parlare, Watson – mi sussurrò Holmes ponendomi una mano sul braccio – Ho fiducia in Luciano, è un tipo onesto e soprattutto sveglio. Vedrà che dopo ci riferirà tutto.» Passarono così una decina di minuti, o forse più, durante i quali io ed Holmes ci guardavamo l’un l’altro con fare falsamente disinvolto, come se non c’interessasse nulla di quello che i due si stavano dicendo. Poi, quasi all’improvviso, Luciano non interloquì più con l’oste e sembrò aver concluso il colloquio. Holmes allora gli disse di chiedere, se non l’avesse ancora fatto, qualche cosa sulla famiglia di Enrica. La conversazione fra i due riprese, questa volta in modo più dialogante, meno serrato, quasi amichevole, come fossero amici da tempo e non frutto di una conoscenza improvvisa e, almeno da parte dell’oste, ben poco voluta. Anche questo secondo colloquio finì e Luciano guardò Holmes per sapere se avesse qualcos’altro da chiedere. «Sì … prova a domandar se ha mai visto e conosciuto Giuseppe Piccioni.» Ancora una volta i due colloquiarono fra loro e al termine, e ancora una volta Luciano fece un cenno d’intesa ad Holmes, ricevendo come risposta che non c’era più nulla da chiedere. Ci alzammo e altrettanto fece l’oste, ma prima di allontanarsi, raccolse cinque delle dieci monete, spingendo sul tavolo verso Holmes le altre e bofonchiando qualcosa che, ovviamente, io non capii. «Dice che i Carlini erano cinque e non dieci. Non vuole nulla di più…» Spiegò Luciano. «Va bene, ringrazialo e salutalo per noi.» Replicò Holmes intascando le monete rimaste sul tavolo. Uscimmo dall’osteria ed entrammo in via Mirasole. Erano le quattro del pomeriggio la strada era davvero assolata, come lo era stata senza dubbio la mattina e il mezzogiorno e come lo sarebbe stata dopo, fino a sera inoltrata. Lì il sole era come su di una rotaia, andava dritto dall’inizio alla fine della via e questa era la ragione del nome che da tempo antichissimo le era stato dato. Camminando sotto il portico Holmes domandò a Luciano di cosa aveva parlato con l’oste e che impressione aveva avuto di lui. «E un’ottima persona. Ha diffidato di voi, ma è più che comprensibile: due stranieri che si presentano evidentemente non per bere e mangiare nella sua osteria, ma per informarsi, pronti anche a pagare per sapere qualcosa, dei sospetti ne suscitano sicuro! Per me ha invece avuto subito simpatia e ha cominciato a parlare senza praticamente che io domandassi nulla. Sostanzialmente mi ha fatto la storia del Borgo. Mi ha assicurato che vi vive solo povera gente, ma onesta e lavoratrice, ma non fu sempre così; qui, una volta, a cavallo degli anni “Sessanta” (Ovviamente “anni Sessanta” del 1800 – N.d.A.), aveva la propria base la malavita bolognese che organizzava furti a banche e a palazzi privati, assalti alle diligenze, rapine in massa alla stazione di Bologna ed allo stabilimento della Zecca e, addirittura, omicidi di poliziotti e magistrati.» «Si lo sappiamo, ce ne ha accennato anche il Conte Paleotti….» «Non ha escluso che qualcuna di queste azioni sia stata organizzata dai capibanda proprio nella sua osteria.… Tutto questo è poi finito con la “Causa Longa” , come l’ha chiamata lui, un processo che mandò oltre cento malavitosi in galera e non per poco tempo.» «Ti ha detto chi erano i capi di questa banda di malviventi?» S’informò Holmes. «No, non gliel’ho chiesto, mi dispiace! Ma ho l’impressione che se anche lo avessi fatto, non me l’avrebbe detto.» «Non fa nulla, se c’è stato un processo, gli atti saranno pubblici e quindi, se la cosa m’interesserà, potrò trovare il modo di saperlo. Avete poi parlato di Enrica?» «Sì, e mi sembra che tutto sommato la ritenga una brava ragazza, nonostante quello che si è detto di lei durante il processo Coltelli. Sì, riconosce che qualche piccolo reato l’ha forse commesso, ma perdonabile e certamente non di quella gravità di cui si è parlato… Chi è che non commette qualche errore nella vita? La ragazza ha poi una grossa attenuante: si è trovata a quindici anni sola e messa a servizio in casa d’altri per contribuire alla famiglia. I genitori non potevano seguirla e, forse, neppure mantenerla. Il padre ha sempre lavorato come facchino nella balla del Borgo; la madre, Giuliana, fa la bracciante ed è lontana da casa, in campagna, dalla mattina alla sera.» «E di Giuseppe Piccioni cosa ti ha detto?» «Sì, lo conosce, anzi, lo conosceva, perché dopo l’omicidio di Coltelli, non l’ha più visto. A suo tempo venne anche la polizia ad informarsi e lui confermò che quel tipo, piuttosto prepotente, aveva frequentato per un paio di mesi l’osteria, ma non spesso. » «Te l’ha descritto?» «Solo un po’… vagamente: capelli cortissimi e bianchi, completamente sbarbato, sui sessant’anni… Mentre ne parlava, però, ha detto che la prima volta che lo vide non gli parve un volto nuovo, come se l’avesse già conosciuto, ma ha subito aggiunto che ne passano tanti per le osterie che è difficile ricordare chi si è già visto e chi no.» Intanto eravamo giunti in via San Mamolo, davanti alla chiesetta dove ci aspettava la vettura. Vi salimmo ed il vetturino ci domandò dove volevamo essere portati. «Andiamo in via degli Orefici – disse Holmes – e ci fermiamo davanti alla vecchia bottega di Coltelli.» Luciano dette l’ordine di andare e la vettura, a piccolo trotto, si mosse compiendo un intero giro su se stessa ed avviandosi verso la grande piazza di Bologna, che raggiungemmo e attraversammo per arrivare subito in via degli Orefici, dove si fermò nel punto indicato da Holmes. Appena la vettura fu ferma egli scese e controllò attentamente il muro della bottega, quindi chiese a gesti al vetturino se gli permetteva di salire a cassetta, cosa che fece con grande agilità; non si mise però seduto, ma salì in piedi sulla cassetta verificando e quasi toccando le persiane di una delle finestre sovrastanti la bottega di Coltelli. Soddisfatto di quello strano sopralluogo, ridiscese e rientrò nella vettura dando ordine a Luciano e, quindi, al vetturino, di muoversi e di ritornare all’albergo. Qui giunti, mentre io me ne risalivo in camera, Holmes mi salutò dicendomi che mi avrebbe raggiunto più tardi: «Devo vedere il Signor Testoni per alcune cose. – mi spiegò – M’ha detto di abitare qui dietro e di andare da lui se ne avessi avuto bisogno. Penso di non metterci molto.»
Anni prima…
Quel pomeriggio inoltrato, il marchese Guido Luigi Pepoli era solo in casa, nell’appartamento che occupava in uno dei prestigiosi palazzi di famiglia di via Castiglione, quello detto “nuovo” che sorgeva all’angolo di via Clavature. I suoi cugini Carlo e Gioacchino Napoleone erano da tempo impegnati altrove, il primo un po’ ovunque, per gli incarichi ricevuti dall’Università di Bologna di cui era docente, il secondo, a Roma, come Ministro dell’agricoltura del Governo Rattazzi. Secondo le ultime notizie i due sarebbero stati ben presto nominati Senatori del Regno, e questo fatto lo inorgogliva per gli ulteriori riconoscimenti che avrebbe acquisito il blasone di famiglia, da sempre ai vertici della politica bolognese e non solo, però lo preoccupava anche, e non poco, dal momento che questi importanti impegni dei cugini facevano ricadere su di lui gran parte della gravosa gestione dei beni e delle altre proprietà dei Pepoli. Proprio per questo, quel giorno e in quell’ora, mentre era in attesa della cena, stava riordinando le cose di casa con la vecchia e fidata governante Teresa. Nello stesso palazzo, ma al piano di sotto, e nella zona destinata alla servitù, c’era qualcun altro molto preoccupato ed era Leopoldo Granchi il cuoco di casa, perché aspettava il garzone che gli doveva portare alcuni ingredienti importantissimi per rifinire le pietanze che stava preparando per il padrone. Vero che la cena di quella sera sarebbe stata tutto sommato povera, come si usava in casa Pepoli quando non c’erano ospiti, ma doveva essere ben rifinita ed elaborata, perché sempre di casa Pepoli si trattava, e lui era il cuoco dei Pepoli! Mentre rimescolava sul fuoco un intingolo, sentì dei rumori alla porta di servizio, quella che da via de’ Toschi dava direttamente nelle cucine; corse ad aprire convinto che si trattasse – finalmente! – del garzone; ma non era lui, erano otto uomini col fazzoletto sulla faccia e le armi in pugno: mancò poco che il cuoco non morisse dalla paura. «Dov’è il marchese?» Gli domandò minaccioso uno degli otto puntandogli alla gola uno coltellaccio da caccia ben affilato. «E’ al piano di sopra… Lasciatemi stare, vi prego!» Implorò Leopoldo con un filo di voce. «Vedremo, intanto portaci da lui!» Il gruppo salì le scale in assoluto silenzio e raggiunse in breve la sala de piano nobile, che però risultò deserta. «Dov’è?» Leopoldo si sentì perduto: «Non lo so… era qui in sala, vicino al caminetto, quando l’ho lasciato mezz’ora fa.» «Chi c’è oltre a lui in casa?» «Solo Teresa, la governante, il signor marchese potrebbe essere nella sua stanza.» «Se la gode il Marchese… – sogghignò il bandito – Portaci da Teresa!» Contrariamente a quanto aveva pensato il bandito, Teresa e il Pepoli erano seduti ad un tavolino, con alcuni fogli in mano e con una pila di stoffe appoggiata sul divano: verificavano l’inventario della biancheria di casa ed il marchese stava rilevando con severità che mancavano quattro lenzuoli di cotone, due da sopra e due da sotto, mentre Teresa, disperata, lo assicurava ch’essi non c’erano perché erano stati dati in lavanderia per il bucato. La porta si spalancò sbattuta con un calcio, e due banditi entrarono gettando di lato il povero Leopoldo che cadde rovinosamente. «Fuori i soldi!» Ordinò il capo della banda puntando la pistola al petto del Marchese, mentre l’altro tappava la bocca a Teresa e puntava la sua arma verso il cuoco. «Sì, sì, ve li do… - assicurò il marchese, più preoccupato dalle intenzioni dei malviventi, che dei suoi soldi - Andiamo in camera mia… Ma state tranquilli, non fate pazzie…» I due malviventi intimarono a Teresa e Leopoldo di seguirli e spinsero il Pepoli fuori la porta: «Andiamo e pochi scherzi!» Il Marchese, pur titubante, sembrava tranquillo e giunto nella sua camera da letto, aprì un cassetto dello scrittorio e consegnò una borsa contenente svariati Napoleoni d’oro e d’argento del valore di oltre 800 scudi.
«Non sono mica scemo – disse con voce cattiva uno dei rapinatori, certamente il capo banda – dov’è la cassaforte?» Il Marchese passò dalla stanza da letto nel suo studiolo e, prese le chiavi da uno stipo, aprì la cassaforte, spostandosi e dando modo al bandito di verificarne il contenuto. Altri beni per un ammontare di 970 scudi si aggiunsero al già lauto bottino. La visita dei bandititi a
Palazzo Pepoli durò poco più di un’ora e fuggendo da via De’ Toschi,
scomparvero in un battibaleno fra i viottoli del centro.
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