CAPITOLO 9
Il motivo per il quale Holmes, tornando da Borgo Ballotte, era andato a casa di Testoni, lo seppi la mattina dopo, verso le dieci quando, appena finita la colazione in camera, ci venne annunciato che proprio il signor Testoni ci attendeva da basso. Non sapevo però il motivo per il quale era venuto, anzi, per il quale Holmes l’aveva fatto venire. Scendemmo, lo salutammo, poi dopo un semplice “andiamo” dettoci dal giornalista, ci avviammo a piedi attraverso la città, percorrendo però una strada diversa dalle solite e che a me parve molto caratteristica, perché solo un suo lato era affiancato da portici, mentre l’altro ne era del tutto privo.
«E’ via Barberia – ci spiegò Testoni – una strada antichissima e, come potete vedere, molto bella e con bei palazzi. I portici sono solo da una parte perché dall’altra i pochi che c’erano sono stati abbattuti, per allargarla e permettere il passaggio dei modernissimi tram a cavalli.»
Camminando, passammo anche davanti a due chiese, entrambe imponenti, ma in uno stato di conservazione diversissimo: la prima (Testoni ci disse che era San Barbiziano), abbandonata e in pratica allo sfascio, la seconda, invece, ancora nel suo pieno splendore (San Paolo Maggiore, ci disse sempre Testoni). Arrivammo così davanti ad un elegante locale, il Caffè della Barchetta, all’inizio di via Farini, una strada ampia, drittissima che mi sembrò molto elegante, anche se estremamente moderna. Fuori dal caffè c’erano numerosi tavolini, tutti ben in fila sotto il portico, ma erano completamente vuoti, perché in effetti, nonostante il portico, lì il sole stava battendo forte e il caldo era pressoché insopportabile. I clienti erano tutti dentro il locale ed anche noi vi entrammo, sedendoci in uno dei pochi tavoli liberi. Testoni si guardava intorno e ci indicava alcuni personaggi famosi del foro di Bologna, avvocati, giudici, cancellieri, ecc., ma in realtà stava cercando qualcuno di preciso. Così, seppi la vera ragione per cui eravamo arrivati fin lì: dovevamo incontrarci con l’avvocato Adolfo Pasi. Quando Testoni lo vide entrare, si alzò immediatamente per accoglierlo, salutarlo molto amichevolmente, accompagnarlo al nostro tavolo e presentarci. In attesa che il cameriere ci portasse le consumazioni ordinate, vi furono, com’è ovvio, parecchi convenevoli e diverse chiacchiere prive di reale interesse; queste, però, furono interrotte quasi all’improvviso, proprio da Pasi: «Lor signori capiscono – disse, guardando l’orologio – che il tempo di un avvocato è molto ridotto. Se mi dite quello che vi interessa sapere, io sono qui a disposizione.» «Hai regione – assentì Testoni – anzi, scusami se ti ho disturbato. Ti lascio subito al Signor Holmes che vorrebbe sapere qualche cosa sul caso Coltelli, sempre se puoi dare le informazioni che ti chiederà.» Guardammo Holmes, che non mancò di parlare immediatamente: «Signor Avvocato, apprezzo molto la sua concretezza, perché anch’io mi stavo annoiando di queste chiacchiere prive di costrutto. Vengo quindi subito al sodo, anche se le sembrerò troppo impertinente: come mai avete assunto la difesa di un imputato … anzi, di una imputata, porlo ovviamente della Zerbini, che non avrebbe mai potuto pagare il vostro onorario?» Testoni tradusse la domanda e Pasi sorrise scuotendo leggermente la testa: «Non è affatto una domanda impertinente, signor Holmes, perché prima di lei, me lo hanno chiesto in molti e non le nascondo che le illazioni furono tante. Ma non c’era e non c’è nulla di strano. Non so se voi mi potrete capire, ma la ragione fu semplicissima: assunsi il patrocinio gratuito della Zerbini perché la controparte era Leonida Busi, un grande del foro di Bologna, forse il più grande in assoluto. Sfida troppo invogliante per lasciarla perdere, se c’era la possibilità di affrontarla.» A questo punto fui io ad intervenire: «Posso garantirvi, avvocato, che Holmes ha capito benissimo. Lui stesso ama le grandi sfide e lo dimostra il fatto che è venuto fin qui, a Bologna, per risolvere un caso che proprio quel “grande” da lei citato non seppe risolvere, anzi, che nessuno a suo tempo ha saputo risolvere.»
«Vede, Dottor Watson, il mio onorario fu ampiamente pagato dal risultato del processo e dall’assoluzione della Zerbini. Fu un tale successo che mi venne chiesto di pubblicare il testo della mia difesa perché fosse oggetto di studio alla facoltà di giurisprudenza. Ma questi sono solo particolari secondari. La vera grande soddisfazione, il vero mio “onorario” fu un altro; fu quello di sentire sussurrare per le strade e per lungo tempo, questa freddura: «Se la Zerbini l’era cundannè, Pès al fèva un Bùs int’l’acqua; adèss ch’l’è stè assolta, bisaggna che Bùs al s’la toia in Pès (vedi nota)» «Ottimo! – esclamò Holmes, che aveva sì capito la battuta, ma che da inglese non poteva certo aver provato l’ilarità ch’essa suscitava nei bolognesi – Ma torniamo al caso di cui stiamo parlando… Voi, avvocato, avete una qualche idea di chi sia in effetti l’assassino dell’orefice?» «Sì, una mezza idea ce l’ho, e l’ho espressa durante la mia arringa quando ho sottolineato con forza che gli inquirenti avevano fatto ben poco per scoprire chi fosse in realtà quel Giuseppe Piccioni che la Zerbini indicava come sicario ed assassino del Coltelli.» «Quindi per Voi, il Piccioni è l’assassino!» «Riconoscendo l’innocenza della Zerbini, non vi è alternativa.» «Un’ultima richiesta, signor avvocato. Conoscete le vicende riferite a quell’associazione di malfattori che operava a Bologna, più o meno vent’anni fa?» «E chi non le conosce? Non c’è mai stato in nessun posto del mondo un processo che vedeva presenti contemporaneamente alla sbarra, ben 104 imputati. Sarebbero stati addirittura 110, ma due erano in contumacia e quattro deceduti in attesa di giudizio. Ma, scusatemi, signor Holmes, cosa c’entra questo processo con l’omicidio Coltelli?» «Beh, una certa coincidenza, per la verità, c’è: la Zerbini è di Borgo Ballotte, Giuseppe Piccioni, quando è apparso, bazzicava le osterie di Borgo Ballotte e sempre in Borgo Ballotte operava la nota banda di malfattori … Ma la ragione per la quale le chiedo informazioni di quel famoso processo… come è stato pur chiamato?... ha, sì, “Causa longa” è perché si tratta di un evento giudiziario davvero straordinario e parlarne con un luminare della scienza giuridica, come siete voi, avvocato, mi sembra oltremodo interessante.» «Grazie del complimento, ma è pressoché impossibile parlarne così, tanto per parlarne … E’ un episodio giudiziario molto complesso! Voi dovete sapere, Signor Holmes, che la pubblicazione a stampa di tutti gli atti processuali è di ben 249 fascicoli, per un totale di oltre cinquemila pagine…. Un’enormità!» «Ah, gli atti sono quindi disponibili?» «Sì, e se proprio siete interessato non vi sono problemi a farveli pervenire.» «Mi fareste un gran piacere, avvocato, ovviamente imprestati!» «Certo, signor Holmes, imprestati…. Allora appena rientrato in studio glieli mando in albergo… ma come farà a consultarli se sono in italiano?» «Su questo non c’è problema. Saprò come fare… anzi, sapremo come fare, vero, signor Testoni?» Sorridemmo tutti e ciò sembrò rappresentare la fine dell’incontro; l’avvocato Pasi si alzò, ci salutò cordialmente e assicurandoci che se avessimo avuto ancora bisogno lui sarebbe stato sempre disponibile, si allontanò.
Tornammo verso l’albergo, ma per altra via, passando in una bella strada affiancata da un lungo portico che Testoni ci disse essere quello dell’antica sede universitaria di Bologna, l’Archiginnasio. Da qui giungemmo … tanto per cambiare … in piazza Maggiore, poi in via dei Vetturini; dove Testoni sostò un attimo davanti ad un imponente palazzo rosseggiante che aveva il portale e le finestre incorniciate da un pesante bugnato di macigno bianco: un contrasto di colori forte, ma elegante e suggestivo. «Questa è la Zecca di Bologna – ci disse– Che fa parte anch’essa di quella “Causa Longa” di cui riceverete gli atti dall’avvocato Pasi.» «Il palazzo è notevole – si complimentò Holmes – come credo sia notevole la storia di ciò che vi avvenne tanti anni fa.» «Sì, in effetti il fatto è davvero notevole…. Tutto iniziò di notte, qui dietro il palazzo, nei cosiddetti vicoli degli Stallatici …»
Anni prima…
Gli stretti vicoli degli Stallatici erano più bui che mai in quella notte tiepida ma senza cielo, con quelle vaste nuvole nere che coprivano la luna e che minacciavano pioggia. Non c’era nessun passante per strada e anche le case delle anguste viuzze erano tutte serrate e silenziose. D’altra parte erano le due di notte e nessuno in quell’ora si sarebbe avventurato per quel viottolo e nessuno degli abitanti si sarebbe affacciato alla finestra. Certamente il sonno di chi stava a letto era pesante e certamente la pioggia imminente scoraggiava ogni voglia di uscire, ma c’era dell’altro: alleggiava nell’aria una specie di strana sensazione, come se si sapesse che stava per succedere qualcosa che era bene non sapere e, soprattutto, a cui era decisamente inopportuno assistere. Un gruppo di manovali stava armeggiando attorno ad una grossa inferriata che chiudeva una finestra di un bel palazzo, la cui facciata si elevava imponente dalla parte opposta, su via dei Vetturini. Era il palazzo della Zecca che tutti, ricchi e poveri, conoscevano bene perché, dicevano, “…lè as fàn i quatréin” (…lì si fanno i soldi), quelli veri, quelli con cui si pagano i salari e si fa ogni giorno la spesa. Già era strano che fabbri e muratori, lavorassero in gruppo a quell’ora e alla luce di lampade ad olio, ma era soprattutto strano che l’oggetto del loro intervento fosse proprio nell’inferriata d’una finestra della Zecca… Il rumore che facevano era molto attutito, e anche ciò era strano per un lavoro di muratura che sembrava non dover essere compiuto di fino; sembrava quasi che operassero di cesello e che avessero “ammortizzato” chissà come e chissà con cosa, i loro strumenti di lavoro. In effetti quelli non erano muratori, ma una banda di malfattori la cui mira era quella di rapinare nientemeno che la Zecca di Bologna, abbattendo prima l’inferriata di una delle finestre esterne, poi il muro divisorio fra il corridoio e il reparto di lavorazione dei metalli. All’interno della Zecca, nel laboratorio chiamato ”officina di aggiustamento”, il battito delle presse sul metallo, il sibilo ritmato di lime e raspe, lo strepitio dei crogiuoli di fusione, non permettevano di udire i rumori che venivano fatti all’esterno, oltretutto deboli, per cui gli operai del turno di notte continuarono a lavorare intensamente, tanto più che erano indietro colle commissioni, fra le quali il conio di ancora ventotto delle cinquanta medaglie d’argento ordinate dall’ Accademia Benedettina e che sarebbero dovute essere pronte per il giorno dopo. All’improvviso si udì un gran frastuono e un gran polverone avvolse l’officina come una nebbia: un suo muro era crollato... pareva che ci fosse stato un terremoto! Gli operai trasalirono spaventati, ma la loro paura si trasformò immediatamente in terrore, quando dall’apertura che s’era venuta a creare, fecero irruzione una quindicina di brutti ceffi mascherati ed armati. Non ci fu alcuna possibilità di reazione perché tutti, sotto la minaccia di pistole e fucili, furono costretti a radunarsi in un angolo ed intimati a non muoversi e a non fiatare. Quattro dei banditi rimasero accanto ad essi con le armi spianate, uno addirittura aveva estratto un coltellaccio e lo teneva rasente al collo di Gigi, capo operaio di quel reparto; gli altri si diressero sicuri verso la grande cassaforte per forzarne la resistenza, cosa che riuscì alquanto agevole, grazie agli strumenti di scasso che si erano portati dietro. Quando fu aperta, uno dei malviventi, forse il capo, ordinò ad uno dei suoi banditi: «Té, Zaiser, tû só såul l ôr e l arzänt, e lâsa stèr tótt al rèst, ch’an vèl gnínta! (Tu, Cesare, prendi solo l’oro e l’argento e lascia stare tutto il resto che non vale niente!)» «Trancuéll, Ànzel, mé an sbâli mai (Tranquillo Angelo, io non sbaglio mai)!»
Gigi, nonostante fosse sotto la minaccia del coltello, non poté fare a meno di pensare che quello ch’era stato chiamato Cesare era uno che se ne intendeva, se no, non sarebbe stata affidata a lui la cernita dei metalli da portar via. Ci vollero pochi minuti per riempire un sacco di preziosi ed un altro quarto d’ora per perquisire tutti gli operai e sottrarre loro, se ve ne fossero, i pochi soldi che avevano in tasca. Il più disperato di tutti fu Giuseppe Negroni, che si vide rapinato dell’unica moneta che aveva, un Francescone, piccola cosa per chiunque, ma che per la sua famiglia (ben otto figli) rappresentava la sopravvivenza per almeno quindici giorni. Quando i banditi ebbero finito e furono fuggiti dallo stesso varco da cui erano entrati, fu chiamata immediatamente la polizia, che dopo aver fatto i primi rilievi, non mancò di convocare i responsabili della Zecca, per fare un primo inventario. Il bottino risultò notevolissimo: ben 1186 tondini d’oro per coniare altrettanti Marenghi e 22 medaglie d’argento già pronte per la consegna della committente Accademia Benedettina.
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