CAPITOLO 10
Pranzammo all’Hotel Brun assieme al signor Testoni, che rimase volentieri con noi essendo molto interessato alle vicende dell’antica associazione a delinquere, perché - ci spiegò - quando essa operava a Bologna, lui aveva appena quattro o cinque anni e quindi non ne aveva conosciute direttamente le imprese, pur avendone sentito parlare spesso soprattutto dai vecchi. Durante il pranzo, però, non affrontammo mai l’argomento, anche perché Testoni era indaffaratissimo a descriverci cosa fosse e come fosse fatto ciò che stavamo mangiando, cosa che io gradivo moltissimo, mentre lasciava del tutto indifferente l’amico Holmes, al quale il fatto di mangiar tortellini o “soup broth” era la stessa cosa.
La contemporaneità della fine del pranzo (avvenuta con una splendida torta di riso) con l’arrivo di un valletto che ci consegnava un pacco, sembrò quasi organizzata, come in una sceneggiatura teatrale. Ovviamente il pacco giungeva dall’avvocato Pasi e conteneva gli atti del processo che Holmes (ma anch’io, per la verità) desiderava esaminare e approfondire. Il libro che fuoriuscì dalla carta che lo avvolgeva era davvero un volume notevole per grandezza, peso e spessore. Holmes lo aprì più o meno alla metà e lo sfogliò facendone scorrere alcune pagine quasi per valutarne meglio la consistenza; dalla lieve smorfia che fece mi sembrò di capire ch’egli avesse dubbi sull’utilità che quel librone, stampato a carattere minuti e su due colonne, avrebbe avuto per lui. «Capisco il suo imbarazzo, Holmes – gli dissi con un tono di consolazione – e non so come farà a recepire e capire qualche cosa da un volume di tal fatta, tutto scritto in una lingua che non conosce.» Non rispose, ma a un tratto, mentre sfogliava le pagine, apparve, ben ripiegato in quattro, un grande foglio ch’egli aprì e guardò con molta curiosità. «Davvero straordinario!» Esclamò sbalordito e trasformando la precedente smorfia di malumore in un ampio sorriso di soddisfazione. Sia io che Testoni allungammo la testa su quel foglio e scoprimmo di che cosa si trattava: era una grande stampa, certamente pregevole e di grande impatto visivo, che mostrava l’intera aula del processo con tutti, proprio tutti gli oltre cento imputati chiusi in gabbia, perfettamente ritratti, riconoscibili e individuabili col nome. Ce la passammo l’un l’altro davvero ammirati e quando questa ritornò fra le mani di Holmes, egli si rivolse a Testoni e consegnatogli il librone, gli disse: «Mi potrebbe trovare e leggere le sentenze di condanne ricevute da ogni imputato? Anche se sono più di cento, non è una cosa lunga!»
Testoni assentì e, preso in mano il grosso volume, cominciò a scartabellarlo fino a giungere alle ultime pagine, che sfogliò ad una ad una finché non ebbe trovato quelle in cui c’era la risposta alla richiesta fattagli da Holmes. A questo punto iniziò a leggere: «…Condanna Alessandro Gandolfi, Pietro Franzoni, detto “Pira”, Luigi Mariotti, Giuseppe Malaguti, Giuseppe Paggi, Camillo Trenti, Gaetano Bertocchi, Cesare Caselli, Luigi Canè, Giuseppe Gamberini e Francesco Laghi, ciascuno singolarmente ai lavori forzati a vita… (Testuale dagli atti del processo – Nd.A.)» La sfilza di nomi e relativa condanna proseguì incessante, quasi inesorabilmente e man mano che progrediva, diminuivano gli anni di condanna: trenta, ventotto, ventisette, ventisei… Holmes ascoltava con molta attenzione nomi e numeri, guardando la grande incisione su cui apparivano tutti i delinquenti sotto processo, quasi volesse farsi un’idea dell’aspetto ch’essi avevano, mano a mano ch’erano citati. «… Angelo Amadori a 16 anni di lavori forzati, Giuseppe Gardini, Giovanni Ghedini, Cesare Stanzani e Filippo Palmerini a 15 anni della stessa pena… (Testuale dagli atti del processo – Nd.A.)» A questo punto Holmes disse a Testoni di interrompere la lettura della sentenza: «Basta così, è sufficiente! Trattandosi semplicemente di nomi, proseguirò io dopo, anche senza il suo aiuto. Intanto grazie, grazie davvero.» Testoni parve sollevato da questa interruzione e ne approfittò subito per bersi un sorso d’acqua, mentre io mi permisi di fare un appunto al mio amico: «Vorrei ricordarle, Holmes, che noi siamo pagati ed ospitati qui, non per indagare su di un’associazione a delinquere di vent’anni fa, ma per trovare il colpevole del recente omicidio dell’orefice Coltelli.» «Lei ha ragione, Watson, ma chi dice che io non lo stia facendo?» La frase era alquanto sibillina e mi prese in contropiede, tanto che dovetti tacere per pensare e cercare di capire cosa effettivamente il mio amico avesse voluto dire con essa. Ma le sorprese non finirono qui e, come sempre, Holmes mi sbalordì ancora una volta e all’improvviso. Conoscevo i suoi impensati ed inspiegabili cambiamenti d’argomento, ma questa volta parve veramente esagerare: «A proposito, – chiese a Testoni – Non so chi me lo ha detto, ma ho saputo che secoli fa, a Bologna c’è stata una grandissima scuola pittorico tanto che le opere dei suoi inimitabili artisti sono esposte in tutti i musei del mondo. Adesso come va?» «Ma Holmes! Cosa c’entrano ora i pittori bolognesi?» esclamai con tono addirittura irritato. Anche Testoni rimase molto stupito di questa stranissima domanda, che nulla aveva a che vedere con quello di cui fino a quel momento avevamo parlato, ma non si scompose più di tanto perché forse aveva capito, accettandone le stranezze, quale sorprendente soggetto fosse Holmes.
«Ottimi pittori ce ne sono ancora, anche se non possono essere paragonabili al livello artistico di Guido Reni, dei Carracci, del Domenichino e di tanti altri dei secoli scorsi. Se però le devo dire qualche nome, le citerei Luigi Serra e Alessandro Guardassoni, che a me piacciono davvero tanto, seppure siano stilisticamente molto diversi.» «Sono ritrattisti?» «Direi proprio di sì perché nelle loro opere la figura umana è sempre centrale e per dipingerla occorre servirsi di modelli; in questo sono molto simili agli antichi. Se però dovessi scegliere, le indicherei il Guardassoni, ottimo sia come pittore che come persona; i suoi dipinti sono quasi esclusivamente sacri, tanto che le chiese di tutta Bologna ne sono piene. Fervente cattolico, da quasi vent’anni sta lavorando gratuitamente in Santa Caterina di Saragozza, la sua parrocchia, di cui sta affrescando le soffittature…. Ma, Signor Holmes, davvero, a cosa le serve questa informazione?» «Ma! Io sono convinto che in una indagine, qualsiasi informazione prima o poi torna utile… Vedremo.» Ma Holmes non smise di sorprenderci perché l’arrivo in albergo di Luciano fece sì che lui, senza dire alcunché, s’alzasse da tavola e gli andasse incontro. Cosa si dicessero quei due, non ci fu dato sapere, certo fu che dopo pochi minuti Holmes si riavvicinò a noi per dirci che andava un attimo in camera a portare su il libro e che poi avrebbe fatto due passi per Bologna assieme a Luciano. «Ci vedremo questa sera a cena – concluse senza null’altro aggiungere – Buon pomeriggio a tutti e due!» Io e Testoni ci guardammo, come se cercassimo l’uno dall’altro la risposta alle domanda di dove Holmes volesse andare e soprattutto per cosa fare. Ma non c’era spiegazione o, almeno, nessuno di noi due avrebbe potuto darla. «Sherlock Holmes è certamente uno strano tipo!» Osservò lui, non per esprimere una critica, ma come fosse rimasto ammirato dal suo fare. «Sì, lo è, – confermai – ma sono proprio queste stranezze, generalmente sorprendenti ed inimmaginabili, che lo portano alla fine a risolvere i casi affidatigli. Anch’io, che pure dovrei essere abituato a questo suo modo di fare, ne rimango spesso spiazzato, anche se alla fine non ci do più alcuna importanza; ma per chi non lo conosce, Sherlock Holmes può apparire persona inurbana, per non dire maleducata. In fondo lei, Signor Testoni, era nostro ospite, anzi suo ospite, e lo stava aiutando in una indagine… Abbandonarla così, senza una spiegazione, mi sembra sia stato davvero scortese.» Testoni mi sorrise: «In fondo, però, non mi ha abbandonato … mi ha lasciato in compagnia di una persona molto amabile e piacevole da frequentare.» «La ringrazio.» «E poi anche per me è ora di andar via. Le notizie mi attendono. Oggi c’è la proclamazione del nuovo Consiglio comunale ed è una notizia importante per il giornale… anche se credo che non ci saranno grosse novità, perché è facile che l’attuale sindaco sarà confermato per l’ennesima volta… ma qualcosa bisogna pur scriverci sopra.» Ci salutammo. Ordinai un te (nulla di meglio dopo un lauto ed appetitoso pranzo) poi mi diressi anch’io in camera. Sul comodino del letto di Holmes c’era il grosso volume degli atti giudiziari di quel famoso processo. Cercai l’incisione in cui apparivano tutti e gli imputati, per riguardarla più attentamente essendomi parso un documento davvero curioso, ma non c’era…. strano! Sfogliai ancora il librone sempre più impressionato dalla sua enormità, ma l’incisione non c’era. Forse Holmes l’aveva riposto altrove o se l’era portata via con se… ma poi perché? Sfogliai, così tanto per fare, il librone ma non ne ricevetti alcuna impressione, tranne la constatazione di come fosse per noi inglesi impensabile che un processo, seppure importante, potesse contemplare una immensità di incartamenti, quali quelli che erano lì raccolti e che io avevo in mano. Fui veramente dispiaciuto di non poter leggerne almeno una qualche pagina, così anche per caso, e recepirne i fatti… Chissà come si era svolto quel processo?
Anni prima…
Nessun’aula del Palazzo di Giustizia avrebbe mai potuto ospitare l’apparato necessario per un processo che vedeva alla sbarra ben centodieci imputati. Era quindi stato attrezzato l’unico spazio idoneo esistente a Bologna, nientemeno che la Sala d’Ercole di Palazzo d’Accursio, sede del comune di Bologna, dove poterono essere allestiti non solo l’enorme gabbia destinata agli accusati, ma anche l’imponente scranno per i giudici, l’ala destinata alle decine e decine di giornalisti provenienti da ogni parte d’Italia e, soprattutto, lo spazio per il pubblico, per il quale vennero anche eretti dei palchi riservati, a mo’ di teatro.
Qui, sedevano soprattutto le signore della “Bologna Bene” con cannocchiali per vedere in faccia gli imputati, soprattutto quella di Pietro Ceneri, una delle menti della banda, ma anche un dandy elegante e con un notevole fascino, che ammagliava qualsiasi donna con cui veniva a contatto; un vero conquistatore, che, fra l’altro, aveva fra le proprie amanti, anche Maria Mazzoni, l’unica donna seduta nella gabbia, assieme agli altri imputati. Il processo iniziò in aprile con la lettura da parte del Segretario della sentenza di rinvio a giudizio degli imputati: «Negli anni 1859-1861, all’interno di questa città di Bologna venivano giornalmente commessi reati sia contro la persona sia contro la proprietà, i quali, per la loro gravità, pel decente vestiario delle persone armate da cui erano perpetrati, per le località e pei tempi in cui erano consumati, si attribuirono ad individui fra loro associati per delinquere e difendersi a vicenda, talchè le persone offese e danneggiate, se pure azzardavano di denunziare il fatto, si schermivano sempre di declinare gli autori col dichiarare di non averli riconosciuti. Coloro che per casualità si trovavano presenti, fuggivano lungi e si nascondevano ed erano ben tosto costretti al silenzio con minacce verbali o lettere anonime. Si è realmente organizzata in città, in quegli anni, un’Associazione di malfattori, divisa in più squadre con assegnamento a ciascuna del quartiere o territorio sui cui si doveva agire ed obbligati tutti con giuramento a distribuire fra loro il prodotto dei reati e soccorrere quelli di essi che cadrebbero nelle forze di giustizia e le rispettive famiglie ad adoperarsi per la liberazione degli stessi, anche con mezzo di assassinii, quando ciò fosse reputato opportuno alla liberazione… (Testuale dagli atti del processo – N.d.A.)» Dopo il verbale di rinvio a giudizio, furono elencati i reati commessi: - “Associazione di malfattori”; - “Omicidi del Questore Grasselli e del Luogotenente Fumagalli”; - “Rapina alla banca Padovani di via Nosadella”; - “Tentati omicidi al vicequestore Pinna e all’agente Kislich”; - “Furti alla stazione di Marzabotto e a ville di Lavino e Loveleto”; - “Rapine alla Zecca di Bologna”; - “Assalto alla diligenza per Firenze”; - “Invasione e rapina alla Stazione di Bologna!; - “Rapine alle case Brazzetti, Pepoli, Paglietti, Bonifazi, Dall’olio, Pizzardi, Zanetti, Bianchi, Canedi e Testoni”; - “Porto e ritenzione d’armi proibite, ritenzione dolosa di oggetti non confacenti alla propria condizione, oziosità (Testuale dagli atti del processo – N.d.A.)”. A queste premesse giudiziarie durate varie settimane, seguirono mesi e mesi di dibattito, interrogatori, discussioni, opposizioni, verbalizzazioni. Particolarmente incisiva fu la deposizione del Vicequestore dottor Pinna, venuto a Bologna per sostituire l’avvocato Antonio Grasselli, ucciso dalla banda in un attentato. Pinna era un sardo tutto di ferro, noto per i risultati già ottenuti altrove nella lotta alla criminalità ed anche in questo caso era stato l’artefice della cattura di tutti i malavitosi e del loro tempestivo rinvio a giudizio: «Quella banda di malfattori, – raccontò – mi dette il proprio benvenuto in città lo stesso giorno in cui assunsi il mio nuovo incarico: ben ottanta individui travestiti da poliziotti e ferrovieri assaltarono la stazione di Bologna realizzando, non senza numerosi ferimenti, un grossissimo bottino e dando l’impressione all’opinione pubblica della loro criminosa imbattibilità. Accortisi però che non mi avrebbero fermato in alcun modo, attentarono per ben due volte alla mia vita, ma grazie al cielo in entrambi i casi rimasi illeso. Ciò mi convinse che occorreva affrettare i tempi, anche perché il momento era più che favorevole per un’azione decisa e tempestiva.» In effetti, alcuni mesi prima, a Genova, un gruppo di delinquenti aveva compiuto una grossa rapina alla banca Parodi, e la polizia era riuscita a catturarne diversi, che risultarono essere tutti bolognesi e appartenenti alla combriccola criminale che aveva sede in Borgo Ballotte. «Presi la palla al balzo – continuò Pinna – e partendo da chi era già in prigione a Genova, allargai la rete a tutti quelli che a Bologna fossero in contatto con loro. Agire in fretta e a tappeto, questo era il mio motto, per cui intensificai al massimo i fermi di polizia e gli arresti, sì da poter istruire un unico processo per tutti. Impedii a sospettati, probabili complici, supposti fiancheggiatori, insomma a tutti coloro che potevano essere malviventi di rimanere in circolazione. E i fatti mi diedero ragione: mentre negli anni ‘60/’61 la cosca banditesca aveva commesso a Bologna ben 237 delitti, e parlo solo di quelli denunciati, nel ’62, dopo un solo anno dalla mia assunzione alla carica di Viceprocuratore, le violenze a cose e persone erano calate a 16 soltanto. A questo punto, ovvero risanata la città, si poté procedere contro tutti gli imputati a questo processo, imputati che io avevo individuato con le mie indagini e che ora sono finalmente lì in quella gabbia a rispondere dei loro crimini davanti alla giustizia!»
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