… spalancò gli occhi incredulo…
Il Palazzo di Giustizia di
Bologna è un gran bell’edificio, forse anche troppo maestoso per una città
non usa ad avere architetture tanto imponenti quanto visibili da una piazza antistante.
Si dice sia uno dei palazzi che ha più finestre al mondo, e si dice pure che
sia stato disegnato da Andrea Palladio, quando, a metà del ‘500, venne a
Bologna, fra l’altro, per proporre il suo progetto per il completamento di
San Petronio. Non breve la storia del palazzo per quanto riguarda i
proprietari: i primi a possederlo, per circa un secolo furono i Ruini, che lo
vendettero nel 1679 ai Ranuzzi, i quali lo
cedettero nel 1822 ai Baciocchi, da cui passò prima
ai Grabrinski, poi al nuovo Regno d’Italia che lo
trasformò in sede dei tribunali di Bologna. Veronica usci dal Palazzo di
Giustizia per andare in un bar vicino dove aveva appuntamento con Ànghelos, e
dopo averlo salutato affettuosamente, ed essersi seduta con lui in uno dei
pochi tavolini liberi, gli raccontò l’incontro fra Rosati e Monsignor Bolognesi
e il patto che lei aveva proposto con l’approvazione del suo avvocato. «Non mi sembra un patto molto conveniente per noi…»
osservò alla fine Ànghelos, commentando la storia di Veronica. «Forse a prima vista non è conveniente, ma non è
così, perché… come dire?... tutto dipende da te, Ànghelos.» «Da me? Scusa, sai, ma non capisco.» «Il patto che abbiamo concluso è fra me, Rosati e
Bolognesi… Tu non ci sei.» «E quindi?» «E, quindi, se tu dovessi mai risolvere
l’indovinello, non ci devi dire nulla e agire tranquillamente da solo. Noi
non sappiamo che tu sai, e, quindi, non dobbiamo riferire nulla a quel
prete.» «Siete proprio degli azzeccagarbugli…» «Eh sì… non per nulla l’arte giuridica è nata a
Bologna… e poi, se non fosse così, come potevamo andare avanti nella nostra
avventura?» Ànghelos sorrise, un po’ al pensiero di Bologna e
dei suoi antichi giuristi, un po’ per la speranza di riuscire a interpretare
il nuovo enigma e cercare là dove l’avrebbe indirizzato. L’uomo… … finì, in
silenzio, di leggere per l’ennesima volta il testo del nuovo indovinello poi
alzò gli occhi verso chi glielo aveva consegnato: «Grazie,
Pietro, farò in modo di restituirti il favore.» «L’hai già
fatto – rispose il prelato – quando hai scoperto che ero stato fregato, che
mi avevano tirato un vero e proprio… come dite voi laici?... ah, già,
“scherzo da preti”…» Entrambi
sorrisero, poi ci fu ancora un momento di silenzio che permise all’uomo di
leggere nuovamente fra sé e sé l’antico documento, per poi farsi pensoso,
come a sottolineare la poca convinzione che aveva sul suo significato. Il
prelato lo guardò serio, scuotendo lentamente e impercettibilmente la testo
per comunicargli che aveva compreso la difficoltà in cui si trovava. L’uomo
parlò: «In pratica
occorre rintracciare una scacchiera di undici caselle per lato, quasi certamente
bianche e nere. Il resto viene da sé.» «Ma, in
definitiva, cosa state cercando tu e gli altri tre?» «Questo non
te lo posso dire…, ma se scopro la scacchiera, vedremo il da farsi.» «Sì,
vedremo, però, se troveremo o troverai qualcosa, questa cosa sarà di
proprietà della Curia.» «Come?» «Hai
capito, hai capito benissimo… D’altra parte è lo stesso patto che ho fatto
con gli altri, con quelli con cui sei in competizione….» «Un patto o
un’imposizione?» «Chiamala
come ti pare, l’importante è che tu abbia capito…» «Invece che
in seminario, saresti dovuto entrare nei gesuiti… saresti stato adattissimo!» «Sai che
hai ragione… ma forse avrei fatto meno carriera…»
Bologna a metà giugno è tendenzialmente calda, ma di
un caldo pesante, di quelli che non ti lasciano scampo, che ti avvolgono
senza dare spazio alcuno a qualsiasi tentativo di trovare e ricevere
frescura. Cerchi l’ombra, ma scopri che l’ombra è calda, solo più buia, ma sempre
calda. Speri nei portici, nei bellissimi e comodissimi portici unici al
mondo, ma anche sotto le loro volte e le loro travature, scopri che il caldo
persiste immutabile e martellante, anzi, sotto i portici oltre al caldo, non
si può evitare l’odore del caldo, che si addensa ancor più e che rende ancora
più disagevole ogni speranza di limitare la calura. Quel giorno, Rosati, era stato come al solito a Palazzo
di Giustizia per una causa - per altro magistralmente vinta - e quando ne
uscì, si trovò, già accaldato e sudato nell’assolata piazza dei Tribunali,
dove ci sono solo cemento, asfalto e granito che aumentano l’afa. Rosati, però, sapeva cosa fare per difendersi:
semplicemente entrare in una chiesa, l’unico luogo dove la tipologia delle
strutture murarie riusciva a salvaguardare quel sia pur minimo fresco
esistente all’interno. E la chiesa più vicina era San Domenico. Quando vi entrò subito l’aria si fece molto più
sopportabile, forse anche perché quella non era semplicemente una chiesa, ma
un vero e proprio contenitore di una sommatoria irripetibile di opere d’arte,
che non aveva uguali a Bologna.
Oddio, si rendeva conto che in quel momento la
pensava in modo così assolutistico, solo perché si trovava lì, e che la
stessa sensazione l’avrebbe provata se entrava in San Giacomo Maggiore, o in
San Giovanni in Monte, o in San Martino; ma questa sensazione di essere in un
ambiente unico per contenuti artistici gli crebbe man mano che avanzava
all’interno della chiesa, avvicinandosi alla Cappella del Rosario. Qui si
fermò e si sedette su di una panca vicinissima all’altare su cui dominava il
quadro della Madonna del Rosario di Ubaldo Gandolfi
e quando lo vide, si dimenticò definitivamente del caldo. Non era la pur splendida
immagine di questa Madonna a colpirlo, ma la sua cornice, opera davvero straordinaria
perché costituita da quindici tavole dipinte dai maggiori pittori bolognesi
del ‘5/‘600: Ludovico Carracci, Guido Reni, Francesco Albani, il Domenichino,
Lavinia Fontana, Bartolomeo Cesi, Denis Calvaert; insomma
una specie di “summa” dell’arte pittorica
bolognese che in quel non breve periodo si affermò in Europa come la maggiore
scuola di pittura esistente.
Rosati stette un buon quarto d’ora a fissare a una a
una quelle quindici piccole tavole (e a stare al fresco) poi guardò l’ora e
decise di muoversi e di tornare nel suo studio. Prima, però volle passare
nella vicina Cappella di San Michele, per rimirare ancora (lo aveva già fatto
tante altre volte), lo splendido crocefisso di Giunta Pisano, un vero capolavoro
del ‘300 che, secondo quanto letto in un qualche libro d’arte, rappresentava
il prototipo di tutta l’antica iconografia dei crocifissi. Fermo davanti alla
cappella sostò più di quanto avesse pensato perché anche lì il fresco c’era e
si sentiva, poi si girò per tornare verso l’uscita della chiesa e fu a questo
punto che spalancò gli occhi incredulo e si batté forte la testa con la mano.
«Che cretino che sono!» esclamò a viva voce, fregandosene
se qualcuno lo udiva. Si avviò in fretta verso l’uscita della chiesa, e
mentre camminava, il suo passo diventava sempre più veloce, fino quasi a
correre. Così non vide più nulla della chiesa e una volta tornato all’aperto,
sulla grande piazza/sagrato, non vide nemmeno il sole, né sentì la calura di
quel giugno bolognese. Tirò fuori il telefonino e chiamò lo studio: «Veronica, sono uscito dal tribunale e sto
arrivando. » «Com’è andata la causa?» «Che causa?... Ah, già, la causa… Ti dirò poi… telefona
a Ànghelos e fallo venire subito in studio.» L’uomo… … stava
pensando alla bugia che una settimana prima aveva detto all’amico Monsignor
Bolognesi: «Non è facile trovare la soluzione, anzi è davvero difficile… »
gli aveva detto, e invece no, la soluzione dell’indovinello l’aveva compresa
subito, anzi, fra tutti gli indovinelli fino a quel momento scovati in ogni
parte della città, uno dietro l’altro, questo era il più semplice da spiegare
perché faceva riferimento a una scacchiera a suo avviso inconfondibile. Aveva a
lungo pensato al da farsi, indeciso se rivelargli o meno la soluzione. Avrebbe
preferito avere a che fare solo con quei tre, piuttosto che con un importante
personaggio che aveva preso in mano le redini dell’azione. Ma i tre sembrava
proprio che non avessero risolto alcunché e navigassero ancora in alto mare.
Se non agivano loro non c’era alcuna alternativa: solo Bolognesi avrebbe
potuto risolvere l’impasse. Prese il
telefono e compose un numero: «Pronto, la
Segreteria della Curia?... C’è Monsignor Bolognesi? » «Chi parla,
prego?»
Rosati, senza alcun preambolo e nemmeno guardando i
due amici annunciò: «L’indovinello è risolto!» «Evviva!» Esultò Veronica, ed anche Ànghelos non
nascose la sua soddisfazione. «Siamo stati stupidi fin dall’inizio, – continuò
l’avvocato – più facile di così si muore: la “scacchiera” che cerchiamo è quella della Tomba di Taddeo Pepoli,
in San Domenico.» «Per la miseria, – esclamò Ànghelos – è vero! Mi
sembra sia nella Cappella di San Michele! Com’è che non ci è venuto in mente
subito? Siamo proprio fusi!» «Sì. – fu la conferma di Rosati – decisamente fusi!» Veronica, che prima aveva mostrato tutto il suo
entusiasmo, ora si era all’improvviso rabbuiata: «Come la mettiamo con quel Monsignor? Se stiamo ai
patti dobbiamo avvisarlo e dirgli che abbiamo risolto l’indovinello.»
Rosati non rispose ma allungò a Veronica una foto: «Di Bolognesi ne discutiamo dopo. Questa è la tomba
di Taddeo che al centro, sotto il sarcofago, ha la scacchiera che cerchiamo:
undici quadrati bianchi e neri per lato; totale 121.» La tomba, più che bella, è decisamente particolare essendo
giocata con marmi bianchi e neri che accompagnano, alternandosi, ogni suo
piano e ogni suo volume. È un vero e proprio inno allo stemma della famiglia
con variegate modi d’inserimento dei due colori che si alternano ovunque, in
quadri, fasce, archi e tondi. Solo il sarcofago è completamente bianco e sul
suo lato spiccano due formelle; nella prima è scolpito Taddeo in trono, non
in veste di condottiero o di politico, ma di docente di diritto, quale in
effetti era; segno che, al tempo, il fatto di essere laureati fosse
prioritario e di maggiore importanza che l’essere Signore d’una città. Nella
seconda formella, appaiono i figli di Taddeo, Giovanni e Giacomo, mentre
offrono la cappella al priore dei domenicani. Ànghelos conosceva benissimo quella tomba, per cui
guardò quasi distrattamente l’immagine che Rosati aveva offerto alla sua
osservazione; più attenta e interessata si mostrò Veronica, che non poté fare
a meno di esprimere il suo parere:
«La tomba mi sembra molto bella… ma questo è
secondario. Il suo vero bello è la scacchiera quella che stiamo cercando da
giorni. Complimenti Avvocato.» «Macchè complimenti e complimenti!...
Era così ovvio che quasi mi vergogno di aver passato quasi una settimana a pensarci
e di averla individuata per puro caso. Piuttosto che facciamo con Bolognesi?» «Bisognerò dirglielo che abbiamo scoperto dove
cercare… – rispose Veronica – Abbiamo assunto un impegno! Solo che non siamo
sicuri che il posto sia quello, bisogna prima verificarlo!» «Facile dirlo! – osservò il greco – stiamo parlando
della tomba di Taddeo Pepoli in San Domenico?!... E come facciamo?» «Di notte, – avanzò Veronica con una eccitata
smorfietta d’entusiasmo – come hai tentato di fare in Santo Stefano, non
riuscendoci. Questa volta, però, ci andiamo in due e vedrai che andrà tutto
bene!» I due uomini si guardarono l’un l’altro… “Le
donne!”... sembravano pensare mentre si scambiavano un cenno d’intesa. Rosati
puntò l’indice sull’immagine della tomba dei Pepoli: «Il punto dove cercare è qui, in questa mattonella
nera. Hai idea di come farai, Ànghelos?» «Assolutamente no! Bisogna verificare sul posto:
potrebbe essere semplicemente da togliere, come già è capitato varie volte;
potrebbe essere una specie di tasto da premere che fa scattare un
qualsivoglia meccanismo; potrebbe essere più semplicemente una specie di
maniglia da tirare… Dio solo lo sa.» Squillò il telefono. Veronica sollevò la cornetta disse «Pronto», ascoltò
la risposta in silenzio, poi si rivolse a Rosati, non senza un’espressione un
po’ preoccupata in viso, porgendogli la cornetta: «È monsignor Bolognesi, avvocato.» Rosati stette alcuni attimi in silenzio con in mano
la cornetta, come se la volesse soppesare, poi se la portò deciso
all’orecchio, spingendo il tasto della viva voce: «Pronto, monsignore, mi dica pure.» «Volevo comunicarle, avvocato, com’era nei patti,
che so dov’è la scacchiera che stiamo cercando.» «Davvero? Complimenti, monsignore, e dove si trova?» «In San Domenico, si tratta della tomba di Taddeo
Pepoli.» «Ah, è quella!» Dall’altra parte del telefono seguì un breve
silenzio prima di risentire la voce, questa volta sospettosa, di Bolognesi: «Non mi sembro molto sorpreso ed entusiasta,
avvocato.» «Ma cosa dice, Monsignore, lo sono… eccome se lo
sono! Ma adesso che si fa?» «Cosa fa lei non lo so… so solo che io e i miei
tecnici, domattina siamo in San Domenico e verifichiamo quella benedetta scacchiera.» «Sono invitato anch’io?» «Certamente! Ci mancherebbe altro.» «Grazie della sua correttezza, monsignore, non
mancherò di certo.» «Allora a domani, avvocato, alle nove in San
Domenico, davanti alla Cappella Pepoli.» «A domani, monsignore, e grazie ancora.» Rosati depose la cornetta e fissò i suoi due
compagni, poi guardò l’ora: «Sono appena le due. Possiamo farcela.» «Sì! I tempi ci sono.» Confermò Ànghelos. «I tempi per far cosa?» Gli chiese Veronica. «Per fare quello che hai proposto, andare in San
Domenico, trovare un nascondiglio fino a quando si fa buio, poi uscire da lì
e andare a smanazzare la tomba di Taddeo.» «Dobbiamo ben verificare se ciò che ci ha detto
Bolognesi è esatto e se il nascondiglio è proprio lì… non le pare, Veronica.»
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