Veronica Monti era una morettina deliziosa, non alta
ma splendidamente proporzionata, che alternava, nel vestirsi, indumenti
tendenzialmente classici, ad abiti più eccentrici e moderni, mantenendo
sempre, però, senza alcuna forzatura, un disinvolto portamento. La sua era
una bellezza minuta, ma completa, evidenziata soprattutto dagli occhi nerissimi,
sempre e comunque volitivi e decisi, sia quand’erano attratti da qualcosa che
approvavano (e allora sembravano anche addolcirsi, ma di poco e per un
attimo, quasi un lampo), sia quando disdegnavano ciò che vedevano (e allora
saettavano livore senza alcun sottinteso). Erano le 19, e lei stava seduta in un tavolino
d’angolo ad aspettare Ànghelos che le aveva telefonato nel pomeriggio
dandogli appuntamento in quel bar e per quell’ora. «Nessuno mi ha mai dato buca per due volte – pensava
guardando l’orologio e cincischiando con il bicchiere ancora quasi del tutto
pieno – se capita ancora non mi vede più!». «Ciao, Veronica! – Era Ànghelos, lì dritto davanti a
lei – Scusa il ritardo, ma…» «Si lo so – nessuna dolcezza nella voce – hai
lavorato molto e avevi bisogno di riposare. Sei riuscito a fare almeno una
doccia?» Ànghelos sorrise e le si sedette accanto: «Sono in ferie da questa sera ed ho fatto la doccia.
Ma ho bisogno di te, Veronica…» «Cos’è, una dichiarazione d’amore?» Ànghelos sorrise ancora, ma scosse la testa, e dopo aver
ordinato al cameriere una cioccolata in tazza, le disse: «Senti, Veronica, tu che lavori in uno studio
legale, potresti informarti su di una questione che interessa un mio amico?» «Dimmi pure, poi vedrò.» «Se uno trova un tesoro, questo a chi appartiene?» «Così su due piedi non saprei cosa dirti. Devo
chiedere in studio.» «Riesci a darmi una risposta per domattina?» «Credo di sì. Scusa sai, ma hai davvero trovato un
tesoro?» «Non lo so o, meglio, non so se si tratti o no di un
tesoro.» Ànghelos raccontò la sua storia porgendo al termine
a Veronica il foglio che riproduceva messaggio e monete. Lei lo guardò
attentamente, poi domandò: «Puoi lasciarmelo?» «Sì, certamente.» «Lo farò vedere al mio titolare di Studio,
l’avvocato Uberto Rosati. Credo che oltre ad essere un ottimo legale, sia
anche un buon conoscitore di Bologna. Forse, qualche dritta per capirci
qualcosa penso che te la possa dare … Ma ora lasciamo stare l’indovinello e
torniamo da dove siamo partiti.» Ànghelos la guardò stupito: «Cosa intendi?» Ora gli occhi di Veronica si erano un po’ addolciti,
ma non del tutto. Era come se stesse attendendo qualcosa, senza la certezza
che potesse arrivare. «Torniamo a quando mi hai detto “ho bisogno di te” – gli disse
sorridendo, calcando il tono di voce sulla frase – ed io ti ho chiesto se
fosse una dichiarazione d’amore…» «Ah, quello! – Ànghelos contraccambiò il sorriso
guardandola fissamente – E se fosse stata davvero una dichiarazione d’amore,
cosa mi avresti risposto?» «Mah… Mia mamma mi dice sempre di lasciare gli
uomini sulle spine…» «E brava la mamma! Seriamente, non posso farti una
dichiarazione d’amore! Un muratore greco con una laureata in legge che fra
breve avrà un suo studio legale, ti sembra possibile?» «E se fosse il contrario? Se tu fossi il laureato ed
io un’operaia?» «Non saprei… Il fatto è che io sono sì un laureato,
ma tu non sei un’operaia…» «No! Ed è proprio per questo che è ora che vada.» «Aspetto una telefonata dopo che hai parlato col tuo
avvocato.» Si salutarono non proprio affettuosamente, ma con
una dolce simpatia certamente sì. L’uomo… … aveva
seguito Ànghelos dal Palazzo Pepol,
al bar e l’aveva visto sedersi al tavolo già occupato da una graziosa signorina.
Non aveva trovato posto fra gli affollatissimi tavolini, ma non se n’era
rammaricato, perché da dov’era, appoggiato al bancone, poteva ascoltare i
discorsi dei due e comprenderli benissimo. Così ebbe la conferma che la ragazza
era proprio Veronica, e che Ànghelos non aveva compreso il contenuto di ciò
che aveva trovato, ritenendo necessario consultare altri per approfondirne il
vero significato. Questo lo
preoccupò e non poco; era infatti molto meglio che la conoscenza del messaggio
non si allargasse troppo, perché altrimenti sarebbe stato molto difficile
poter controllare lo sviluppo che una sua eventuale spiegazione poteva
comportare. Erano già
in tre a conoscerlo e tra poco sarebbero stati in quattro, con l’aggiunta di
un non meglio identificato avvocato. La faccenda
si stava complicando. La mattina successiva Ànghelos guardò sulle Pagine
Gialle per trovare un numismatico. Si trattava di un certo Enrico Righi, in
via Clavature 20/22.
Conosceva bene quella splendida strada che anticamente
univa il centro della città con la prima cinta muraria, e aveva visto tutte le
cose preziose che conteneva: l’ala Nord di Palazzo Pepoli Campogrande (una
specie di seconda facciata che poco ha da invidiare a quella ufficiale che dà
su via Castiglione); le case Schiavina, splendido esempio di edifici del ‘200
strutturati con piani rialzati sporgenti, sostenuti da straordinarie mensolature lignee; la vecchia chiesa trasformata in
mercato coperto rionale; la chiesa di Santa Maria della Vita, una specie di
“bomboniera” per contenere il capolavoro della scultura bolognese del ‘400,
il Compianto di Nicolò dell’Arca e, infine, il voltone che, chiudendo la strada,
ne apre il passaggio in piazza Maggiore con una straordinaria vista
scenografica sul palazzo del Podestà e la sua Torre. Giunto davanti al negozio dove doveva andare, gli
sembrò più quello di un gioielliere che di un numismatico, rendendosi anche
conto che entrarvi e farsi ascoltare sarebbe stato un po’ difficile, lui che
era uno straniero e che oltretutto era chiaramente un operaio. Quando però
entrò, fu piacevolmente stupito di non aver suscitato alcuna sorpresa nel
gentile commesso che lo ricevette: «Buon giorno, mi dica pure.» «Mi scusi se la disturbo, avrei bisogno di far
vedere una moneta.» «Allora è meglio che parli col titolare, il signor
Enrico, è lui che s’intende di numismatica, glielo chiamo subito.» Piccolo, capelli bianchi, viso simpaticissimo con
gli occhiali calati fin sulla punta del naso, in giacca e cravatta, il Signor
Enrico accolse Ànghelos con un largo e sincero sorriso. «Il signore desidera?» «Vede, vorrei sapere qualche cosa su questa moneta.» Gli porse l’immagine che aveva scansionato dalla
moneta originale. «È un “Pepolese”, – fu la sentenza di Enrico Righi, dopo che
l’ebbe esaminata attentamente – una moneta fatta coniare nel 1338 da Taddeo
Pepoli appena divenuto Signore di Bologna. Vede, sul recto, attorno alla
croce, c’è anche scritto il suo nome. Fu detta Doppia Grossa perché valeva
due Grossi che, a loro volta, valevano 12 bolognini. Taddeo era anche Vicario
del Papa in città. È per questo che sul retro appare l’immagini e la scritta
di San Pietro. La moneta era d’argento e del peso di circa
«Grazie, è stato chiarissimo. E quanto potrebbe
valere oggi questo “pepolese”? «Credo nulla, perché mi sembra dalla foto che si
tratti di un falso. Vede, è troppo perfetta, sembra nuova di conio… e questa
moneta non è stata più prodotta da quasi settecento anni.» «Ma se fosse vera?» «Se fosse vera e nuova di conio, varrebbe certamente
tanto… Dove l’ha trovata?» «Per caso, risistemando un vecchio muro.» «Beh, se quel muro fosse del ‘300, allora potrebbe
essere anche vero. Si usava, all’epoca, porre delle monete nella prima pietra
di un nuovo palazzo da costruire, ma dovrebbe trattarsi di un edificio dei
Pepoli.» L’uomo… … dopo che
Ànghelos fu uscito dal negozio, vi entrò anche lui rivolgendosi allo stesso
commesso che aveva servito Ànghelos. «Buongiorno.» «Buongiorno
a Lei, mi dica pure.» «E’ uscito
da qua un mio amico…» «Quello che
voleva mostrami una moneta? «Appunto,
quello…» «Allora
deve parlare anche lei con il titolare, glielo chiamo subito. L’uomo
parlò col numismatico: «Mi scusi,
so che la cosa è delicata, ma sono in gara con un mio amico, quello che è uscito
da qui da poco. Si tratta di una moneta che ha trovato…» «Il pepolese?» «Appunto!
Come le dicevo abbiamo fatto una scommessa. Io sostenevo che era un pepolese, e lui diceva di no.» «Lei, ha
vinta la scommessa! È proprio un pepolese e l’ho
detto anche al suo amico.» Uscito dal
negozio, l’uomo si guardò intorno per vedere se avesse potuto rintracciare Ànghelos,
ma fu inutile. Non fu, però, inutile l’aver saputo che le monete trovate dal
muratore erano pepolesi. Un’altra conferma che tutto
convergeva verso i Pepoli come se improvvisamente il passato ritornasse a
rivivere nel presente. Ànghelos, uscito dal negozio del numismatico, si era
avviato lentamente verso una libreria poco lontana, e anche qui si era
rivolto a un commesso: «Ha qualche libro che parla dei Pepoli?» «Certamente, Signore, ne ho diversi…. Mi segua.»
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