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… un rotolo di broccato rosso

Ànghelos lesse varie volte lo stranissimo messaggio, ma più lo leggeva e meno lo capiva e allora accese il computer, entrò in internet e digitò “pepoli” nel motore di ricerca. Trovò diversi siti, ne lesse molti, riempì fogli di appunti, ma nulla c’era che potesse motivare il messaggio che aveva rinvenuto nel cortile di Palazzo Pepoli.

Le storie comunicate dai siti internet partivano tutte da Romeo Pepoli, arricchitosi in modo spregiudicato con l’usura e diventato nel 1306 signore di Bologna che ebbe poi a governare fino al 1323. Fu in quell’anno che una folla inferocita lo stanò di notte da casa con la seria volontà di linciarlo e se non ci riuscì, fu solo perché lui ebbe la prontezza di spirito di buttarsi dietro, mentre fuggiva, manciate di monete d’oro, così che gli inseguitori in cerca di giustizia, preferirono fermarsi per raccoglierle, piuttosto che raggiungere e punire il malvagio.

Taddeo Pepoli 2

Taddeo Pepoli in una
iconografia moderna

Fu proprio per questo episodio che il figlio di Romeo, Taddeo, quando una quindicina di anni dopo acquisì il potere che già fu del padre, decise di fare in modo che in casa sua non potessero più entrare dei malintenzionati e si costruì in via Castiglione non solo e non tanto un semplice palazzo, ma una vera e propria fortezza.

Taddeo morì nel 1347, fra il pianto sincero dei bolognesi e, con lui, morì anche un terzo della popolazione. Una guerra? No, semplicemente la peste… che non fa differenze politiche nello scegliere le proprie vittime sacrificali.

La signoria, però, non morì, almeno subito, e passò ai due figli di Taddeo, Giovanni e Giacomo, i quali, invece di governare la città, se ne liberarono quasi subito, nel 1350, vendendola ai Visconti di Milano e ritirandosi in pensione.

Tutte cose interessanti per Ànghelos, ma nulla che potesse riallacciarsi al messaggio che aveva ritrovato: nessuna “Giulia” nelle documentazioni che aveva letto, né tanto meno una qualsivoglia ragione per la quale occorreva portare quella benedetta signora in un luogo identificabile solo perché c’era un “torrione”. Ma quale? Al tempo, Bologna vantava dalle 100 alle 200 torri e quindi era pressoché impossibile individuare quella cui l’indovinello si riferiva. E se anche fosse stato, occorreva sperare che fosse una delle sole ventitré superstiti e ancora esistenti.

Erano ormai le due di notte ed era stanco sia per il lavoro svolto di giorno in cantiere, che per la ricerca eseguita nella notte, ma sapeva benissimo che non sarebbe riuscito a dormire. Un bel guaio davvero, ma tanto valeva provarci.

Prima, però, com’era solito fare ogni sera, annotò sul proprio diario (che teneva fin da quando era bambino) gli avvenimenti salienti della giornata: il ritrovamento di Palazzo Pepoli, la descrizione delle monete e del contenuto del messaggio.

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Bologna del ‘200 in una ricostruzione plastica degli anni ’20 di Angelo Finelli

 

 

L’uomo…

…, nella sua dimora non riusciva ad addormentarsi. Aveva riguardato e letto le antiche carte ritrovate nella storica biblioteca di famiglia, fra cui quel voluminoso incartamento di un centinaio di pagine tutte in carta “bombagina” e finemente miniate. Lo scritto era in “volgare”, e in effetti sembrava una specie di cronaca degli eventi all’epoca dei Pepoli. C’erano importanti cenni del periodo di Romeo, ma riportava sopratutto quelli riferiti a suo figlio Taddeo, e ai figli di questo, Giacomo e Giovanni. C’erano la storia degli atti che avevano permesso a questa famiglia di governare Bologna per quasi tutta la prima metà del Trecento, assumendone la Signoria, gestendone la cosa pubblica, avendo contatti con le signorie vicine e lontane e rapporti, se non amicali, certamente benevoli nei confronti dei concittadini.

Era riuscito faticosamente a leggere quelle pagine e a trascriverne il contenuto in un italiano più leggibile ed era così che, in mezzo a fatti per lo più noti, c’erano anche alcuni particolari del tutto inediti. Li rilesse, guardò l’ora, le tre e mezzo, e ritornò a letto.

Doveva assolutamente dormire, perché l’indomani ci sarebbe stato molto da lavorare.

 

 

Ànghelos fu svegliato alle otto e un quarto del mattino dallo squillo del telefonino.

Guardò chi lo chiamava e contemporaneamente l’ora e non poté evitare di imprecare, prima di dire con voce assonnata:

«Pronto, Veronica!»

«Dormi ancora?» fu la domanda di rimando dell’amica.

«Beh, sì… Anzi, ti ringrazio di avermi svegliato, devo andare al lavoro e sono già in ritardo.»

«Non dovevamo fare colazione insieme, stamattina?»

«Sì, dovevamo, ma ormai è fatta… Ci sentiamo più tardi… ti chiamo io.»

Non ci fu risposta da parte di Veronica, solo il gelido “clic” del telefonino che interrompeva la comunicazione.

Ànghelos non si lavò, si vestì di corsa, s’infilò le scarpe senza nemmeno allacciarsele, corse fuori, per inforcare la bicicletta che teneva nell’atrio (alla faccia dei condomini che brontolavano per il decoro dello stabile) e partire di gran carriera verso via Castiglione e Palazzo Pepoli.

 

 

L’uomo…

... guardò il cartellino affisso sulla porta: “Ànghelos Kuotzaidènis”, poi esaminò la serratura, come a volerne misurare la consistenza; estrasse un grimaldello, lo infilò nella toppa e fece forza; non ci furono problemi, la serratura scattò e l’uscio si aprì. L’uomo sorrise; evidentemente c’era ben poco da rubare in quell’appartamento e chi lo occupava non aveva certo paura che a qualcuno saltasse in mente di scassinarlo.

Entrato che fu, vide la libreria e vide il computer: o qui o là avrebbe dovuto trovare quello che cercava e mentre si avviava verso le scaffalature, dovette girare attorno al tavolo della cucina, l’unico esistente in quel modestissimo ambiente. Vide l’agenda di Ànghelos aperta e quasi invitante…

Lesse: “Continua il restauro di Palazzo Pepoli. Nell’aggiustare il pavimento del cortile…”

L’uomo continuò a leggere. Erano poche righe sintetiche sul ritrovamento di Ànghelos cui aveva assistito la mattina prima:

… trovate in un drappo sicuramente dei Pepoli, sei monete d’argento che non so che siano e un manoscritto su pergamena che, a firma di P. D. B. detta:  Porta Giulia là dove scorre / vita, timore e artistica tensione. / Nei pressi del fortissimo torrione / l’occhio attento bisogna porre. L’appunto terminava con: “Dovrò parlarne con Veronica.” L’uomo ricopiò la poesiola in un notes che aveva in tasca.

 

 

Ànghelos aveva ripreso il suo lavoro di rifinitura scalpellando le antiche mattonelle del cortile, quando giunse il direttore dei lavori.

«Posso parlarle, direttore?»

«Sì, Ànghelos, vieni in ufficio.»

L’ufficio era un cabinotto prefabbricato nel quale dominava un grande tavolo da disegno, con appuntata sopra la pianta di Palazzo Pepoli.

«Allora?» domandò il superiore.

Ànghelos gli raccontò di come aveva aperto il plico e cosa vi aveva trovato dentro, dando al direttore le fotocopie del messaggio e delle monete.

«Cos’è, una favola?» domandò fra l’ironico e l’incredulo l’ingegnere.

«No, a me più che altro sembra un indovinello…»

«E tu hai risolto questo indovinello?»

«No. Io so solo che potrebbe avere una grossa importanza dal punto di vista storico e culturale, come anche le monete. Penso che sia opportuno informare le autorità del ritrovamento, ma sarebbe meglio che lo facesse lei, ingegnere, che ha più autorità.»

«Ed io dovrei rischiare di fermare i lavori per un indovinello e per alcune monete senza valore? Tu sei matto. Facciamo una cosa: tu cerchi di risolvere l’indovinello ed io valuterò il da farsi. Anzi, da domani prenditi un paio di settimane di vacanze, così potrai studiare meglio la tua scoperta.»

«Come vuole… Cercherò di completare il mio lavoro entro oggi. L’ho quasi finito!»

«Bravo… e tienimi informato sugli sviluppi dell’indagine, e senza parlarne con nessuno, mi raccomando!»

«Sarà fatto.»

Ma Ànghelos sapeva già che questo non sarebbe stato possibile.

 

 

 

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