… un rotolo di broccato rosso …
Era giunto otto anni prima dalla Grecia, riuscendo a
regolarizzarsi e ottenere un lavoro che se anche non era quello che sperava
(aveva conseguito ad Atene la laurea in Storia dell’Arte), gli permetteva di
vivere dignitosamente in un paese molto migliore del suo e in una città,
Bologna, che aveva apprezzato fin dall’inizio. Aveva trovato casa nel ghetto ebraico, quasi sotto
le Due Torri, un monolocale molto minuto, ma sufficiente alle sue poche
necessità, fra cui lo spazio necessario per la sua biblioteca, avendo come
hobby l’intimo piacere di leggere libri, specie se delle materie che lo
appassionavano, arte, storia, biografie; per il resto nulla di speciale: nessuna
ragazza fissa, alcuni amici italiani che gradivano la sua compagnia, qualche
cinema, molto teatro e molte visite alla Pinacoteca, al Museo Civico e alla
Collezione d’arte del Comune. Insomma, si chiamava Ànghelos Kuotzaidènis,
aveva trentatré anni e faceva il muratore, ma un muratore un po’ speciale,
perché pur se inquadrato come semplice manovale, in realtà non lo era,
essendogli stata affidata col tempo, una mansione molto particolare e
delicata, quella delle rifiniture, un’attività essenziale per la società per
cui lavorava, specializzata in restauri e ristrutturazioni di edifici
d’epoca. Per questo, quell’11 aprile, di buona ora, Ànghelos Kuotzaidènis era accucciato nel lato nord del cortile
interno di Palazzo Pepoli, dove stava restaurando il piancito del marciapiede
e in particolare, le mattonelle che lo delimitavano Una alla volta estratte
le pietre dal loro interramento, le ripuliva dalle scaglie di antico cemento
e terriccio rappreso, ne vagliava la consistenza e la riutilizzazione per
predisporle alla loro ricollocazione.
Avanzando pian piano lungo la parete, Ànghelos
giunse a un non grande anfratto racchiuso da due piloni esterni di sostegno e
lì si fermò per prendere respiro e verificare il modo migliore per liberare
le sei piastrelle incassate e strettamente compattate fra essi e il muro.
Raschiò e ripulì i loro orli dalla cementazione dei secoli per staccarle
l’una dall’altra ma queste resistettero e non vollero assolutamente staccarsi
da dov’erano. Erano sei ed erano anche un po’ scheggiate, ma sarebbe stato
comunque un peccato romperle definitivamente e sostituirle, per cui decise di
scalzarle scavando nel terreno sottostante ma nel farlo lo scalpello cozzò
contro un qualcosa apparentemente molto più duro. Vi lavorò attorno per
vedere cosa fosse quell’improvviso ostacolo e scoprì che si trattava di una
consistente pietra di macigno estesa da un pilone all’altro, lunga come tre
mattonelle e presumibilmente larga due. Ora, su di lui, più che la volontà di
proseguire nel suo accurato lavoro, agiva la curiosità di capire la strana anomalia
di quella pietra sepolta, su cui erano cementate sepolte le mattonelle. Batte forte contro la pietra e i lievi rimbombi
delle martellate gli mostrarono che essa era cava, e allora pose lo scalpello
sul suo lato semisepolto e la colpì forte aprendovi una non piccolo squarcio
sufficiente a inserirvi una mano e tastarne l’interno. Sentì qualcosa che
parve muoversi sotto le sue dita, lo prese e lo estrasse, costatando che si
trattava di un rotolo di broccato rosso con impresso al centro uno scudo in stoffa
a quadretti bianchi e neri; lungo circa cinquanta centimetri e largo cinque;
era legato da due nastri dorati vincolati con sigilli di ceralacca. L’uomo… ... stava
camminando lento nel cortile di Palazzo Pepoli, e si guardava intorno, quasi
stesse verificando l’attività dei muratori. Era
attratto in particolare dal lavoro di uno di essi, quello che era chino sul
selciato antistante al possente muro di cinte e che stava armeggiando attorno
ad uno strano macigno bianco semisepolto e ricoperto da mattonelle. L’uomo si
fermò e si appoggiò dietro ad una delle colonne della loggia, per meglio spiare
non visto i movimenti dell’operaio. Più che curiosità, la sua, era un vero e
proprio interesse, come se sapesse in anticipo cosa fosse quella pietra e
cosa contenesse, tanto che, vedendo l’operaio estrarre il rotolo rosso, non
poté trattenere una smorfia di disappunto. «Ecco
dov’era…» pensò. All’uomo venne in mente quell’antico documento che aveva trovato mesi
prima e nel quale s’indicava senza ombra di dubbio che nel cortile di palazzo
Pepoli, era nascosto un segreto. Non era però specificato dove fosse e i
tanti tentativi che lui aveva fatto per cercare di individuarne la possibile
posizione erano malamente falliti. E ora, quello sconosciuto individuo, quel
manovale, aveva in mano ciò che non gli competeva e che per lui non avrebbe
potuto avere alcun valore. L’uomo
guardava continuamente il muratore, ma in realtà i suoi occhi, come fossero
una lente d’ingrandimento, erano fissi sul rotolo rosso, quasi a tentare
d’ampliarne la vista per scrutarne meglio l’aspetto, ma il rotolo restava
piccolo e quasi completamente coperto dall’operaio che l’aveva in mano. Ànghelos, davanti a quel rotolo, stette alcuni
minuti a guardarlo e a rigirarselo fra le mani, poi chiamò il capomastro che,
avvicinandosi, lo apostrofò spazientito con un: «Cosa c’è, Ànghelos?» «Ho trovato questo, Sembrerebbe un guiderdone
arrotolato e sigillato. Non so, ma è certo che si tratti di qualche cosa
d’antico riferito ai Pepoli.» «Dove l’hai trovato e come fai a sapere che è dei
Pepoli…» «Era racchiuso in questa pietra sottostante le
mattonelle... Che sia qualcosa riferito ai Pepoli è ovvio, perché c’è il loro
stemma impresso.»
«E tu, greco, come fai a sapere che è lo stemma dei
Pepoli?» «Beh, sono sei mesi che siamo qui a lavorare a
Palazzo Pepoli, e questi scacchi bianchi e neri sono sparsi un po’ ovunque
qui dentro, ma anche se non ci fossero, il loro stemma lo conosco bene.» «Aspetta qui che vado a chiamare il direttore… mi
sembra di averlo visto arrivare alcuni minuti fa.» Mentre Ànghelos rigirava fra le mani l’involucro
cilindrico cercando di capire di cosa si trattasse, sentì una voce alle sue
spalle. Era il direttore dei lavori, l’ingegner Alfonso Balestrieri, quello
che a suo tempo l’aveva assunto. «Allora, Kuotzaidènis ,
fammi vedere cos’hai trovato.» Ànghelos gli porse il cilindro, spiegando di nuovo
dove l’aveva trovato e cosa fosse a suo parere. Il direttore lo stette ad ascoltare,
guardò l’oggetto con indifferenza poi sentenziò: «Fa come se non fosse successo nulla e prosegui nel
tuo lavoro.» «Come sarebbe a dire?» «Dovrei avvertire la Sovrintendenza dei Beni
Culturali, ma se lo faccio succede il finimondo! Rischiamo di far fermare i
lavori per chissà quanto tempo! Per il momento tienilo tu a casa e non ne
parlare con nessuno, poi vedremo il da farsi.» «Perché io?» domandò perplesso il greco riprendendo
il rotolo che il direttore gli allungava. «Perché so che ti piacerà averlo… non sei uno
studioso di storia? Consideralo come un premio per l’ottimo lavoro che stai
facendo qui.» Il direttore s’allontanò, mentre Ànghelos Kuotzaidènis rimase allibito e con il rotolo in mano. L’uomo… …, sempre
seminascosto nel porticato, aveva potuto sentire quasi tutto dei dialoghi intercorsi
fra i tre ed era rimasto interdetto, perché quell’operaio che avevano
chiamato Ànghelos era straniero, greco, se aveva ben capito, e nonostante ciò
sembrava avere conoscenze ben superiori a quelle che un normale manovale
poteva avere, ricavandone l’impressione che questo fatto gli avrebbe
complicato le cose. Recuperare in un modo o nell’altro quel prezioso
involucro rosso sottraendolo a un povero muratore sarebbe stata una cosa
sostanzialmente semplice; agire invece nei confronti di qualcuno più edotto
era tutt’altra cosa. Occorreva conoscere meglio quell’Ànghelos. Deciso, quindi, a non perderlo d’occhio, uscì da palazzo Pepoli, per appostarsi
di fronte, l’angolo della Cassa di Risparmio; da qui avrebbe potuto vedere
tutti e tre i portali di palazzo Pepoli, da uno dei quali, quell’Ànghelos,
sarebbe dovuto necessariamente uscire a fine lavoro.
Ànghelos non appena entrato a
casa, pose delicatamente il cilindro rosso sulla tavola e, presa una lente d’ingrandimento,
osservò attentamente i due nastri laterali che lo tenevano avvolto e che
erano stretti da sigilli in ceralacca su cui era impresso lo stemma a scacchi
dei Pepoli. Fece quindi una lieve pressione su uno di essi con un cutter,
badando bene a non danneggiarlo e, forse per i secoli trascorsi, questo si
staccò come fosse un bottone automatico; i lembi del nastro cedettero senza
sforzo alcuno. Ripetuta con successo l’operazione anche sul secondo sigillo,
stava per srotolare la stoffa così liberata, quando squillò il telefonino. Guardò il display: era Veronica: «Ciao.» La voce che rispose nascondeva, sotto un’allegra
serenità, un certo risentimento: «Ciao Ànghelos, non dovevamo vederci al pub, questa
sera?» Ànghelos se l’era proprio dimenticato, ma non poté
certo giustificarsi spiegandone il vero motivo. «Scusa, Veronica, ma me lo sono proprio scordato. È
stata una giornata davvero pesante e, arrivato a casa, mi sono addormentato
sul divano.» «Se vuoi, vengo da te. Prendo un DVD di un bel film
e ce lo guardiamo insieme.» «No, Veronica, scusa… facciamo domani sera… anzi ci
vediamo domattina davanti al tuo ufficio per fare colazione. Alle otto,
d’accordo?» «D’accordo…» Così confermò la ragazza, ma la sua
vera risposta fu l’immediata interruzione della telefonata. L’uomo… … era in
via dell’Inferno, sotto il brevissimo tratto di portico che accompagnava
all’esterno l’abitazione di Ànghelos. Fra i nomi riportati nei campanelli
aveva visto quello di “Ànghelos Kuotzaidènis”, e
non poté fare a meno di notare come quel nome non fosse stampigliato a mano
su di un cartellino incollato esternamente alla meglio (cosa usuale a Bologna
per studenti ed extracomunitari), ma ben scritto, sicuramente col computer, e
ordinatamente inserito sotto il vetrino. Anche questo semplice fatto indicava
come quell’Ànghelos Kuotzaidènis dovesse essere
qualcosa di più di un semplice operaio. Aveva poi dedotto che la mancanza di
altri nomi, nel cartellino, stava a indicare che esso viveva solo; mentre il
fatto che il tasto del campanello fosse il primo da basso faceva presumere
che la sua abitazione doveva essere a piano terra. L’uomo
guardò l’ora: erano le undici di sera; pensò che difficilmente a quell’ora Ànghelos
sarebbe uscito da casa per trascorrere la serata altrove; era molto più
probabile che in quel momento la sua attenzione fosse tutta su ciò che aveva
trovato in cantiere e, quindi, s’allontanò lungo i viottoli del ghetto
ebraico, come un passante qualunque. Dopo la telefonata di Veronica, Ànghelos srotolò con
grane attenzione e delicatezza il drappo rosso trovandovi dentro sei monete e
un foglio non grande di cartapecora anch’esso arrotolato. Le monete, apparentemente d’argento, erano tutte
uguali di diametro di circa due centimetri, poco spesse, quasi una lamina e
avevano impresso da un lato, una croce di tipo templare e dall’altro
l’immagine di San Pietro. Le impilò e le spostò leggermente per srotolare il
foglio di cartapecora che tenne steso a fatica sul piano, per poterne leggere
il contenuto. Su di esso c’erano cinque righe di scrittura gotica precedute
in alto a sinistro dallo stemma dei Pepoli. Prese carta e penna e trascrisse il testo in
stampatello. Porta
Giulia là dove scorre
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