Sandro Samoggia
SFIDA A TAROCCHI

 

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Capitolo 7

Una nuova “Smazzata”

 

 

Lo stesso giorno della conferenza stampa di Susanna, al TG4 delle sette, Emilio Fede sembrava impazzito per la notizia che stava annunciando e che aveva posto in apertura di un telegiornale che si prevedeva quasi completamente destinato ai “Tarocchi assassini”, come il giornalista-conduttore aveva ribattezzato il caso di Bologna. Non furono da meno gli altri telegiornali nazionali: il TG1 preannunciava un’edizione straordinaria di “Porta a Porta” in prima serata con i rappresentanti dei RIS, i criminologi più esperti, un giudice, Alba Parietti e una nota cartomante milanese (chissà perché mai avvenente e in minigonna); Canale 5 non fu da meno affidando a “Matrix” un altrettanto spettacolare appuntamento con investigatori, psicologi, e autori di gialli. Nell’edizione dell’Emilia-Romagna del TG3 si susseguirono i servizi esterni sui luoghi di ritrovamento dei morti, mentre in primo piano gli inviati mostravano i tarocchi di riferimento e, in sovrapposizione, i nomi degli assassinati. Programmi come “Quark”, “Misteri “e “Vojager“ sembrarono sguazzare del caso di Bologna, per estrarre dai magazzini documentari sui serial killer più famosi della storia e sulle origine grafiche ed esoteriche dei tarocchi.

Già alle sei e mezzo di sera si poteva trovare in edicola un’edizione straordinaria del “Carlino“ che a tutta pagina intitolava: “I tarocchi insanguinano i portici”. Titoli simili si ritrovarono il giorno dopo su tutte le testate nazionali, mentre giungevano in città numerosi inviati anche dei maggiori giornali esteri.

Il bailamme dei mass-media proseguì per oltre un mese e man mano che passavano i giorni, dalle righe degli articoli di stampa e dai toni di voce dei commentatori televisivi, trasudavano sia l’auspicio (mai espresso, però) che si realizzasse un nuovo omicidio, sia la curiosità di sapere a quale dei trionfi restanti sarebbe stato collegato. Un importante quotidiano nazionale intitolò uno dei propri articoli d’apertura: “Quale Tarocco sarà il prossimo assassino?”. Non vi fu giornale, programma radiofonico o trasmissione televisiva che non indagasse sui presumibili luoghi di Bologna relazionabili ai tarocchi e quindi ai futuri omicidi, e sui nomi di bolognesi che avessero assonanza con essi e, quindi, sulle probabili vittime.

Salirono ovviamente in cattedra psicologi e criminologi per individuare il vero carattere del serial killer, ma ciascuno di essi dava responsi diversi, se non contrastanti fra loro: era un figlio unico e quindi indifeso, oppure aveva avuto invece molti fratelli e si riteneva succubo di essi? Era una persona di alta cultura, un laureato, che ricercava di superare se stesso, oppure un uomo semplice, che voleva realizzare e conclamare le proprie poche conoscenze a tutto il mondo? Aveva avuto genitori non idonei al loro compito, oppure al contrario era un orfano allevato da chissà chi? E i genitori? Erano stati così severi tanto da costringere il figlio a liberarsi dalla loro potestà con gli omicidi, oppure erano stati troppo accondiscendenti così da costringerlo a ricercare da solo emozioni ch’essi non potevano dargli?

Non mancarono, ovviamente, interviste ed interventi di cartomanti e veggenti, che manovrando i loro coloratissimi e svariati strumenti magici, spiegavano il vero significato di ciascun tarocco, prevedendo tutto quello che emergeva dalla disposizione che le carte assumevano distribuendole sui tavolini. Un certo Magik Mistero, noto cartomante di via del Falcone, assicurò il Carlino che il prossimo omicidio riguardava il trionfo n. 9, la “Forza” e che si sarebbe compiuto a Palazzo d’Accursio, nella sala d’Ercole (mitico emblema della forza); non solo, ma che le carte avevano predetto che sarebbe stato ucciso o un membro di Giunta o, forse, lo stesso sindaco di Bologna. Il veggente, però, non aveva previsto, e neppure pensato, ad un particolare: il suo vero nome era Francesco ORZAni, e proprio per questo era stata messo sotto protezione dei Carabinieri.

Anche molti cittadini comuni rimasero impressionati dalle notizie e fu un continuo telefonare ai carabinieri, alla polizia, ai vigile del fuoco e addirittura ai vigili urbani. Voci disperate lamentavano l’assonanza con un qualche trionfo dei propri nomi o di quelli di amici o conoscenti; ci fu uno che si chiamava Stefano Laurenti e che voleva protezione perché nel suo nome erano richiamato nel trionfo n. 16, la ”Stella”, (dimenticando però che stella si scrive con due “L” e non con uno.).

Molti erano sicuri di dove sarebbero stati commessi i prossimi omicidi, e indicavano angoli di Bologna fra i più disparati e impensabili: uno arrivò ad assicurare che il tarocco la “Fonte” indicasse assolutamente la sua cantina per le numerose infiltrazioni d’acqua che aveva; un altro, al contrario, sosteneva che quel tarocco altro non era che l’avallamento della sua strada che, quando pioveva, diventava una specie di piscina, maledicendo l’assessorato alla viabilità perché non provvedeva.

Poi c’erano i mitomani che sia in forma anonima, che dichiarandosi apertamente, erano pronti a confessare tutti gli omicidi, ma che dopo alcune semplici domande, non sapevano neppure dove essi erano stati commessi. Altri, più preparati, rispondevano correttamente, ma alla domanda “dove compirà il prossimo assassini e chi ne sarà la vittima?”, rimanevano interdetti. Uno solo disse che non l’avrebbe mai detto e che avrebbe proceduto se la polizia non lo arrestava.

Tutto questo marasma informativo sembrò comunque aver fermato la mano dell’assassino, perché per quasi un mese e mezzo a Bologna non vi furono altri omicidi da aggiungere alla lista dei tarocchi.

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Nel mentre continuava sempre intenso e attento il lavoro d’investigazione e qualche nuova risultanza emergeva, ma assolutamente inutile per individuare chi potesse essere il serial killer. Furono verificati anche eventuali moventi che avrebbero potuto essere alla base di ogni omicidio, ma era più che altro semplice routine, di fatto inconcludente (e lo si sapeva a priori), dovendosi trovare le ragioni non di un solo assassinio, ma di una serie complessa e variegata di omicidi tutti collegati fra essi.

Questo il Maresciallo Susanna Simoni lo sapeva benissimo, ma il vaglio dei referti e dei rapporti d’indagine era alla base del suo lavoro e, quindi, non si stancava mai di esaminarne le risultanze da sola o con la commissione d’indagine, alla ricerca, quasi ossessiva, d’una sia pur minima indicazione che potesse portare una qualsivoglia convergenza fra i cinque omicidi ed un solo omicida.

Ma questa convergenza non emergeva mai, qualunque fosse la congettura supposta. Singolarmente ogni omicidio poteva trovare ragione d’essere in un movente specifico e, quindi su di un colpevole teoricamente individuabile, ma era la concatenazione di tutti gli omicidi che escludevano sia l’uno che l’altro.

Antonio Gelosi, per esempio, il bancario enigmista, il cui corpo era stato trovato sotto l’angelo del Villino Bernaroli, era d’origine pugliese e risultava comproprietario coi fratelli a San Severo, di un’importante azienda familiare produttrice di olio. La sua morte, quindi, avvantaggiava certamente i familiari superstiti suoi immediati eredi. Già questo movente, seppure labile, era anche ipotizzabile, ma cera un altro fatto che rendeva interessante questa tesi d’indagine: uno dei fratelli della vittima, Salvatore Gelosi, risultava notoriamente affiliato ad una cupola mafiosa locale, il che se non probante, era certamente indicativo anche di un possibile colpevole, se non come diretto esecutore, certamente come possibile mandante. Inoltre, poteva anche trattarsi di una vendetta trasversale nei suoi confronti, per un qualche sgarro fatto ad un capo cosca alleato o avversario che fosse.

Ivano Morini, quello del Voltone del Podestà, risultò essere sì andato allo stadio e ritornato con gli amici, ma nel solitario tragitto fra il bar e casa sua, aveva fatto, com’era solito fare, una non brevissima deviazione per raggiungere l’abitazione dell’amante, certa Floriana Reni, che frequentava da oltre un anno. La tresca non era conosciuta al momento dell’assassinio e solo successivamente un amico aveva ritenuto opportuno portarla a conoscenza degli investigatori. La “deviazione” fu ripercorsa dalla scientifica e forse fu anche individuato il probabile punto dov’era stato commesso l’omicidio, una siepe che accompagnava un desolato e deserto marciapiede, ma le tracce erano molto labili e, quindi, del tutto inutili ai fini investigativi. L’esistenza però di un’amante aveva comunque determinato un possibile movente nella gelosia sia da parte della moglie, Lorena Porelli, che dell’amante, Wanda Cerioli.

Maurizio Ortelli, il commesso che amava fotografare Bologna di notte e il cui corpo era stato trovato sotto il portico della Morte, era sposato con un figlio di otto anni; la sua vita era del tutto tranquilla e non era risultato nessun interesse che lo vedesse coinvolto in affari poco chiari; aveva un lavoro che lo soddisfaceva (era capo del reparto informatico del grande magazzino in cui lavorava) con colleghi che lo rispettavano e che non provavano invidia per la sua posizione di superiore. C’era però una possibile eventualità nella sua mania di fotografare: Ortelli avrebbe potuto anche scattare, di certo involontariamente, una qualche foto notturna compromettente per qualcuno, ma la supposizione non era dimostrabile alla luce delle conoscenze investigative e sarebbe stata comunque molto fragile per costituire un valido movente per un omicidio.

La posizione di Soverino Legacci, grande primario ortopedico al Rizzoli, era invece molto diversa e di moventi ce ne potevano essere a decine, a cominciare dalle invidie dei colleghi e dalle aspirazioni di molti per scalzarlo dal ruolo e prenderne il posto o, quanto meno, per affiancarlo ad equivalente livello. Oltretutto, egli era anche persona molto rigida nella conduzione del suo reparto, e non erano pochi i collaboratori – anzi, forse tutti, dagli infermieri fino ai sanitari – che avevano avuto a che dire sui suoi atteggiamenti autoritari e che non ne sopportavano le continue e quasi sempre immotivate critiche sul loro operato. Legacci, diviso dalla moglie e senza figli era anche ricchissimo e suo unico erede era il nipote Roberto Conforti, anch’esso ortopedico nello stesso reparto dello zio, in ossequio a quelle “baronie” che negli ospedali non sono di certo rare. L’omicidio di Legacci, quindi, aveva vari moventi e, in definitiva, anche un probabile colpevole da ricercare nell’entourage ospedaliero, dove, oltretutto, chiunque conosceva i suoi movimenti e poteva agire nel modo migliore per premeditarne la morte.

L’ultima vittima, Sandro Tanari, il cui corpo era stato trovato sotto l’ultimo arco del Portico di San Luca, era un vecchio ragioniere ex dipendente delle Finanze che, andato in pensione, curava in nero alcune aziende di amici. Abitava a Porta Santo Stefano, ed era considerato un “rompipalle” dai condomini, in quanto polemico per qualsiasi sgarro si facesse al regolamento condominiale. Bastava una porta lasciata aperta, una pedata sul prato del giardinetto comune, una luce dimenticata accesa, perché lui si facesse vivo col trasgressore per riprenderlo e rimproverarlo. Futili motivi, questi, che non costituivano di certo un movente per ucciderlo, ma il fatto che si occupasse di contabilità poteva anche far supporre un suo qualche atteggiamento non proprio limpido nei confronti dei suoi clienti, come per esempio, ricattarne qualcuno per non denunciarne le eccessive evasioni. Ipotesi, comunque, non tanto da verificare, quanto da provare. Per il resto, era vedovo e viveva da solo avendo i due figli costruito altrove le loro famiglie, con le quali però aveva ottimi rapporti anche se la frequentazione non era proprio al massimo. La morte era stata stabilita dalla scientifica dalle otto alle dieci ore prima del ritrovamento del corpo, quindi, fra le undici e l’una della notte. Dov’era stato ucciso? Frequentava un circola sociale dove andava quasi tutte le sera e anche quella sera era stato lì a fare, come sempre, un “terziglio”, un gioco ormai in disuso a Bologna… un gioco che si fa in tre e con le carte dei tarocchi. I suoi compagni di tavolo, certi Gilberto Romita e Loris Bergamaschi, non avevano notato nulla di diverso in lui, sempre pignolo, sempre ordinatissimo nel segnare i punti alla fine di una mano, sempre uso a bere un caffè prima della partita ed un’anisetta poco prima di rientrare. C’erano cinquecento metri dal circolo a casa sua ed in effetti il punto d’incontro fra lui ed il suo assassino era stato rintracciato per le macchie di sangue ritrovate dalla scientifica su per via Gandino, in un angolo sufficientemente buio del marciapiede di sinistra, quasi all’altezza di via Olindo Marella.

A forza di leggere e rileggere i rapporti, le relazioni ed i referti delle indagine, Susanna li aveva praticamente imparati a memoria, ma insisteva nel vagliarli di nuovo: ci doveva pur essere qualche collegamento fra i cinque omicidi che andasse al di là del riferimento ai tarocchi o che ne integrasse la connessione! D’accordo, l’omicida era sicuramente uno psicopatico ed altrettanto sicuramente agiva imitando la sequenza dei ventidue trionfi, ma era solo questo a spingerlo all’assurdo comportamento, oppure c’erano altre motivazioni ancora oscure, ma più coerenti con le casistiche criminali ordinarie?

Erano quasi le undici di sera e Susanna spense la luce e tentò di dormire, conscia che il pensiero del lavoro che stava curando l’avrebbe fatta riposare ben poco. E invece ci riuscì, e profondamente, fino a quando il suo sonno fu interrotto dallo squillo del telefonino che l’arma le aveva dato in dotazione.

“Pronto – esclamò mezza assonnata e non ancora in grado di connettersi con la realtà del risveglio – sono Simoni, agli ordini!”

“Maresciallo, abbiamo trovato un altro cadavere…” rispose dall’altra parte del telefono la voce di un collega.

Guardò la sveglia sul comodino: erano le 7,30 del 22 agosto.

 

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