CAPITOLO 3
Eravamo usciti dall’Hotel Brun, e stavamo comminando verso il centro di Bologna. Sotto la guida del Conte Paleotti, conoscemmo così la Strada di San Felice, la stretta via dei Vetturini, e la “Volta dei Pollaroli”, ai cui lati si affacciano da una parte l’ala fortificata del Palazzo Comunale e dall’altra un massiccio portico detto “della Gabella”, ovvero l’antico ufficio che riscuoteva le tasse e i dazi della città. Entrammo poi in Piazza Nettuno, dove campeggia una della più belle fontane del mondo, poi da qui, attraversammo un’ampio voltone molto suggestivo, anche se un po’ malridotto, alla fine del quale ci trovammo quasi di fronte a via degli Orefici, meta della nostra breve passeggiata. Proprio all’inizio di essa, notai un negozio con le vetrine coperte dalle saracinesche, senza i tendoni parasole e con le finestra superiori completamente serrate; il tutto dava un’idea di triste abbandono, né serviva a dar vita allo stabile il lieve dondolio di una insegna di legno su cui campeggiavano, molto consunte e sbiadite tre spade a lama abbassata,.
«L’oreficeria Coltelli?» Chiesi a Paleotti indicando la casa. «Sì, quella detta “all’Insegna delle Tre Spade”, come vede. Qui è tutto chiuso da quando è successo il fatto.» «Che voi sappiate, signor Conte – domandò Holmes – le finestre del piano di sopra hanno le inferriate?» «No, Dottor Holmes, le inferriate non ci sono, o almeno, non c’erano quando fu compiuto il fattaccio.. D’altra parte al Coltelli parve inutile metterle, essendo le finestre molto in alto rispetto al piano della strada, tre metri e mezzo (circa quattro iarde), e con nessun appiglio possibile al muro.» «In effetti, – dissi – sembra anche a me impossibile che qualcuno si sia potuto introdurre in quella casa da una delle finestre.» «Impossibile? Mica tanto…» Fu l’immediata e convintissima contestazione di Holmes alla mia osservazione; una contestazione che per altro mi sembrò alquanto strana, dal momento che finestra e muro erano lì in tutta la loro evidenza e nulla poteva far pensare che qualcuno vi potesse salire. Forse Holmes pensava all’utilizzo di una scala?… Glielo chiesi e lui mi guardò come un professore guarda uno studente che ha risposto male a una domanda semplicissima. «Una scala? No, decisamente no! Alle undici di sera, uno non può arrivare con una scala, appoggiarla al muro di una gioielleria, entrare da una finestra, uscirne dopo un po’, riprendersi la scala e andarsene tranquillo senza che nessuno abbia visto nulla. Andiamo, Watson, un po’ di criterio!» Annuii, ma l’idea della scala mi rimase come l’unica possibile. Fu Paleotti a questo punto a parlare: «Credo che qui non vi sia più nulla di vedere. E’ ora di colazione, possiamo andare a mangiare. L’osteria è qui vicino, in quella viuzza lì giù.» Assentimmo e dal sorriso di Holmes capii che l’invito era di suo completo gradimento, perché anche l’osteria del Sole era uno degli ambienti che gli interessava indagare.
Quando entrammo era inevitabile notare come il locale non avesse nulla di elegante, anzi pareva quasi che si fosse fatto di tutto per renderlo il meno ospitale possibile: una penombra diffusa che la porta d’entrata e le finestre affacciate su di un cortiletto interno non riuscivano completamente a penetrare; muri anneriti da anni di mancata imbiancatura; tavolacci di legno da sei, otto, dieci posti, con attorno sedie maldisposte e male impagliate; un bancone sbeccato e macchiato da grosse chiazze di vino ormai assorbite per l’eternità; vecchi aggeggi di cucina appesi al muro fra numerosi immagini incorniciate, apparentemente insignificanti ma certamente di antica e, forse, antichissima data. La cosa particolare era che nonostante tutto questo, l’osteria dava l’idea d’essere un ambiente molto ospitale, addirittura elegante, proprio per la sua ricercata trascuratezza.
Ci sedemmo ad uno dei tavoli e subito l’oste si avvicinò portandoci un bottiglione di vino e tre bicchieri e salutando il Conte in modo molto amichevole: «Piasair ed vàddrel ed nôv, sgnèr Conte. (Piacere di rivederla, signor Conte)» «Piasair anca mè, Pascuèn… cs a i èl da magnèr incû? (Piacere anche per me, Pasquale… cosa c’è da mangiare, oggi?) » «Fasû e fritè d’arvajja. Incû l’è giurnèta ed vizégglia! (Fagioli e frittata di piselli. Oggi è giorno di vigilia)» Paleotti cercò di tradurre al meglio il breve dialogo in bolognese e io e Holmes lo guardammo alquanto sorpresi, come a chiedergli cosa significasse la faccenda della vigilia. Ci rispose chiarendo che in Italia, nonostante fossimo nel XIX Secolo, la religione cattolica aveva ancora una fortissima incidenza anche su cosa mangiare, come il divieto della carne il venerdì. Allargammo le braccia acconsentendo ai fagioli e alla frittata. «Ma comm i dscarrèn sti dû? Î m pèren di tûrc! (Ma come parlano questi due? Sembrano turchi!)» Chiese l’oste a Paleotti. «No, sono inglesi.» fu la risposta. «E csa vègnen a fèr que a Bulagna, dù inglis? (E cosa vengono a fare qui a Bologna due inglesi?)» Il Conte ci tradusse il tutto, poi ci domandò: «Cosa devo rispondere sul perché siete venuti qui a Bologna?» «Che siamo venuti a risolvere l’omicidio Coltelli… – gli rispose deciso Holmes – Lo dica pure all’oste, signor Conte, lo dica pure.» Dopo che Paleotti ebbe chiarito la ragione della nostra presenza a Bologna, l’oste si aprì in un gran sorriso di soddisfazione: «A sån ste mé ch’ai ò salvè cla pôvra dòna, quand la fèva di vêrs fòra da cla fnêstra… (Sono io che ho salvato quella povera donna, quando urlava dalla finestra)» «S l è par quasst, a i êra anca mé, cla nôt! (S’è per questo, c’ero anch’io, quella notte)» Chi aveva parlato era stato un ometto malvestito con un cappellaccio sbiadito in testa e seduto, quasi accartocciato, ad un tavolo d’angolo, con un bicchiere in mano ormai vuoto. Sulla sedia vicina era collocata una fisarmonica rossa, all’apparenza di ottima qualità.. «Té sta zétt, Ióffa, ch't êr ciuchè dûr, cunpàgn' adès! (Tu stai zitto, Giuseppe, ch’eri ubriaco duro, come adesso)» «Ciuchè mé? Inpusébbil, con tótta l’âcua ch’t métt int al vén! Nå, nå, a i êra anca mé lè, cla nôt e a i ò vésst incôsa! (Ubriaco io? Impossibile, con tutta l’acqua che metti nel vino! No, no, quella notte c’ero anch’io lì e ho visto tutto!) » Il simpatico battibecco fra l’oste e lo strano cliente ch’era stato chiamato “Ioffa” fu interrotto da Holmes: «Possono lor signori raccontarmi come sono andate le cose quella notte? M’interessa molto!» Ioffa guardò Paleotti che aveva tradotto quanto detto da Holmes: «Lor signori a chi?» Domandò ad occhi sbarrati. «A te e all’oste!» fu la specifica del Conte. Ioffa scosse fortemente la testa: «A mé, dèr dal sgnåur? In èn mégga di inglîs chi dû lè, i én di mât! (Dare a me del Signore? Non sono mica inglesi quei due, sono matti!)» L’oste, invece, fu più indifferente e meno diretto, perché con la scusa di andare a preparare il mangiare si allontanò dal tavolo e si diresse in cucina. «Allora, Ioffa, dimmi un po’: cos’è successo dopo che la Zerbini fu portata fuori da casa Coltelli con la scala dei Pompieri?» «Me ajò fat fenta d’alluntanèrum da chi trì questurèn… (Feci finta di allontanarmi dai poliziotti….)»
Anni prima… Ioffa finse di allontanarsi dalla pattuglia dei tre questurini che stavano sorvegliando la donna, ma il piacere di guardare Enrica, ancora discinta, anche se riparata dalla coperta, fece sì che facesse di tutto per rimanere a tiro, tanto da poter ascoltare quello che il capitano diceva e quello che la donna rispondeva. Fu subito affiancato dall’oste Pascuèl, anche lui interessato alle fattezze dalla donna, ma soprattutto agli eventi che lo avevano visto in definitiva protagonista. Uno dei gendarmi, sicuramente il capo, si era intanto rivolto alla donna: «Sono il Capitano Vittorio Comini della Questura di Bologna. Ora può tranquillizzarsi perché non c’è più alcun pericolo. Mi dia le sue generalità, per favore!»
«Zerbini Enrica, di anni 21, domestica del Sig. Camillo Coltelli, nella cui casa risiedo provvisoriamente. » La serenità con cui Enrica rispose alla domanda parve al Capitano quantomeno strana, perché il vetturino che aveva chiamato la polizia aveva anche raccontato che la donna urlava a più non posso tant’era terrorizzata ed angosciata dalla situazione in cui si trovava. Stranissima questa improvvisa calma… Che ciò fosse indice di una sua certa consuetudine a parlare con le autorità? Aveva forse dei precedenti? «Mi dica quello che è successo, signora Zerbini.» «Signorina, prego.» «Va bene, signorina, ma adesso mi racconti.» «Ho trovato il signor Coltelli sul letto in un lago di sangue e con la testa fracassata. Allora sono corsa alla finestra e mi sono messa a gridare, perché non sapevo come uscire dalla casa e avevo paura che chi aveva ucciso il mio padrone fosse ancora lì e che lo potesse fare anche a me.» «Quindi lassù, in quella casa, c’è un cadavere?» «Certo, non è mica potuto uscire, ridotto com’è!» «Non faccia la spiritosa, signorina! Se lassù c’è un morto, la cosa è molto seria, soprattutto per lei.» «Ma io…» «Non c’è io che tenga! Piuttosto, mi spieghi come mai, se abita lì, non sapeva come uscire di casa?» «Chiudendo bottega si chiude anche l’unica possibilità di uscire o entrare in casa, perché la casa è sopra la bottega. E’ Coltelli a chiudere alla sera l’unica porta che c’è e lo fa… lo faceva sempre personalmente, perché così era sicuro che nessuno entrasse per rubare. Non ho mai saputo come aprire quella porta!» «Ho capito… Beh, ora vedremo come andrà a finire questa storia!» In un angolo poco distante, i due dell’osteria videro il Capitano allontanarsi dalla donna e dirigersi deciso verso di loro, ed ebbero un sussulto di paura. Cosa avrebbe voluto da loro? Li voleva solo allontanare, oppure li avrebbe messi sotto torchio? Furono molto indecisi e si guardarono l’un l’altro come a domandarsi s’era meglio aspettare gli eventi, oppure ritirarsi quatti, quatti, ma in fretta, da quel posto. Stettero fermi. «Vogliono lor signori fornirmi le generalità?» I due si presentarono e, a seguire, raccontarono perché fossero lì e quello ch’era accaduto, loro presenti. «Benissimo, se volete potete andare.» Concluse il Capitano Comini che poi si diresse verso la scala dei pompieri che era ancora appoggiata al muro e vi salì silenziosamente sotto lo sguardo di tutti i presenti, anche dei tanti passanti che via via si erano fermati incuriositi. Dopo diversi minuti, forse un quarto d’ora, ecco riapparire sulla finestra e ridiscendere dalla scala il Capitano, che rivolgendosi ai suoi uomini ordinò: «Tu, Coppola, accompagna la signorina Zerbini in Questura, poi torna subito qui portando un procuratore e un medico! Se occorre, buttali giù dal letto! Tu invece, Esposito, viene con me, che torniamo in quella casa e cerchiamo di vedere meglio il luogo del delitto.» Rivolto poi alla Zerbini, aggiunse: «E lei, signorina, non faccia scherzi e segua disciplinatamente l’agente Coppola!»
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