CAPITOLO 1
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«Lei, Watson, si fida troppo
dell’Enciclopedia Britannica … Meglio dar credito all’ intuito deduttivo.
Quello non sbaglia mai!»
«E sui portici di Bologna
cosa le dice il suo intuito deduttivo, di cui pur tuttavia mi fido
moltissimo?»
«Semplici abusi edilizi
protratti nel tempo e tollerati dalle autorità, se non addirittura
autorizzati.»
«Sarà, caro amico mio, ma se
così fosse si tratterebbe del più spaventoso abuso edilizio di ogni epoca e
di ogni dove, perché a Bologna ci sono ben ventitré miglia di portici, stando
sempre a quello che dice la nostra amata Enciclopedia.»
«Ventitré miglia? Davvero
straordinario! Calcolando che la distanza da una colonna all’altra potrebbe
essere di circa due iarde e mezzo, se ne deduce che in questa città ci sono
la bellezza di oltre quindicimila archi di portico…»
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«Questa, però, Holmes, non è
una delle sue famose deduzioni, è un semplice calcolo matematico che tutti
possono fare. Con questo metodo, avrebbe potuto anche precisare che oltre ai
quindicimila archi di portico, vi sono altrettante colonne di sostegno, non
le pare?»
«Quindicimila colonne? E no,
carissimo Watson, le colonne sono molte di più!»
A questa affermazione di
Holmes, rimasi interdetto e, guardandolo di sottocchio e in silenzio, restai
in attesa delle spiegazione ch’egli, come al solito, avrebbe certamente dato.
Questa volta, però, non aprì bocca e si alzò lentamente dalla poltrona in cui
era adagiato, per prendere la sua borsa da viaggio, aprirla ed estrarne pipa,
tabacchiera e fiammiferi; poi, sempre in silenzio, si diresse verso la grande
finestra della stanza d’albergo in cui ci trovavamo e, quasi a voler ancor
più pungolare la mia impazienza, si mise a caricare la pipa e ad accenderla
con studiata lentezza, per assaporarne poi con serena voluttà le prime
boccate di fumo.
A questo punto non resistetti
e sbottai: «Allora, Holmes, perché le colonne sono di più degli archi?»
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Holmes si disinteressò della
mia impaziente insistenza, e guardandosi intorno, osservò: «Bello questo
albergo… Hotel Brun, vero?»
«Sì, Holmes, Hotel Brun… Ma non cambi discorso….»
«Quando l’ho visto mi è
sembrato un edificio molto antico.»
«Sì, ha quattro secoli di
vita. Prima di diventare un albergo era un palazzo nobiliare, palazzo Ghisileri, costruito ai primi del ‘500, così almeno
specifica la guida che ho consultato prima di venire a Bologna. Ma vogliamo
tornare all’argomento di cui stavamo parlando?»
«Qual era pure, Watson?» Mi
domandò Holmes facendo finta di cadere dalle nuvole.
«Bologna, i suoi portici e le
loro colonne.»
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«Ah, già, i portici di
Bologna: lei, Watson, diceva che ce ne sono per ventitre
miglia con ben quindicimila archi e altrettante colonne… davvero straordinario!»
«Sì, sì, Holmes, è
straordinario, l’ha già detto, ma poi ha anche precisato che le colonne per
sostenere il tutto sono molte di più. E perché mai?»
«Elementary, my dear Watson, Elementary (Elementare, Watson, elementare)! Non ha mai pensato che per sostenere
un arco occorrono due colonne, e se gli archi sono due, le colonne diventano
tre, per cui se un portico ha, per esempio, cinque archi, le colonne debbono
essere necessariamente sei? E se gli archi sono nove, le colonne dieci?… E
così via, un numero di colonna sempre maggiore d’una unità di quello degli
archi…»
Il discorso di Holmes fu interrotto da un lieve bussare
alla porta. Era il cameriere di stanza che chiedeva di entrare per
comunicarci qualcosa. Ricevuto il consenso questi aprì la porta e restando
impettito sul corridoio, annunciò: «The illustrious Count Michele Paleotti
is down in the atrium to
be received by your Lordships…... I owe it to sit him in the room
or prefer to meet him downstairs? (L’illustrissimo signor Conte
Michele Paleotti è giù in atrio per essere ricevuto
dalle Vostre Signorie. Lo debbo far accomodare in stanza o preferiscono
incontrarlo da basso?)»
Io ed Holmes aspettavamo quel
signore, perché era quello che ci aveva fatto venire a Bologna, e anzi
c’eravamo meravigliati che giorni prima, non ci avesse accolto alla stazione;
c’era però un suo incaricato, che dopo aver portato le scuse del Conte, ci
aveva accompagnati in albergo in carrozza. All’annuncio che finalmente
avremmo incontrato questo nobile bolognese, ci guardammo e dopo un breve
reciproco parlottio fatto sottovoce, decidemmo che per motivi di riservatezza
era meglio farlo salire, piuttosto che incontrarlo da basso, aggiungendo che
non appena fosse giunto in stanza, venisse servito il te.
«Certainly, gentlemen. (Certamente signori). »
Mentre il cameriere usciva
Holmes mi sussurrò: «Non ha un bell’inglese, quel servo.»
«Meno male che comunque lo
parla e si fa capire… Non credo che siano in molti qui a Bologna a conoscere
la nostra lingua.»
«Per fortuna che il Conte Paleotti la sa.»
Holmes aspirò dalla pipa
alcune ampie boccate di fumo, e dopo averle disperse fuori dalla finestra, vi
si affacciò guardando fuori: «Come si chiama questa via?»
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«Strada
di San Felice, ma altro non è che un tratto
della Via Emilia, una vecchia strada consolare romana che univa il mare al
centro del nord Italia.»
«Vedo che tranne qui di
fronte, è una via abbastanza stretta, quasi angusta. Altro che strada
consolare, questa sembra un’insulsa viuzza, un viottolo di un quartiere
degradato!»
Non potei dire la mia al
riguardo, perché fummo interrotti dal nuovo ticchettio alla porta e
dall’approssimato parlare inglese del cameriere: «Gentlemen, can I do accommodate Count
Michele Paleotti? (Signori, posso fare accomodare
l’illustrissimo Conte Michele Paleotti?) »
«Certainly (Certamente)!»
La porta si aprì e con un
gran sorriso seguito da un breve inchino della testa, il Conte Paleotti entrò nella camera tendendo la mano verso di
noi: «Nice to meet you, Dottor Holmes and
Mister Watson. (Lietissimo di conoscervi, Dottor
Holmes e Signor Watson).»
Era attorno alla settantina
ma dava l’idea di essere più giovane e non di poco per il sorriso un po’
spavaldo, l’espressione bonaria che aveva e che non era occasionale, e
l’atteggiamento decisamente aperto e spontaneo,.
«Il piacere è nostro,
Illustre Conte Paleotti» Dissi, con tono un po’
piccato per il fatto che il mio meritato titolo di dottore fosse stato
attribuito ad Holmes. Poi aggiunsi: «Il suo inglese è davvero splendido.
Complimenti!»
Cristina Dudley Paleotti
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«Grazie, ma noi Paleotti abbiamo un buon rapporto con l’Inghilterra, da
quando un paio di secoli fa un nostro antenato ebbe a sposare Cristina
Dudley, dei duchi di Northumberland e conti di Warwick…»
«Ah, però, i duchi di Northumberland! – esclamai sorpresissimo – una delle
famiglie più altolocate del nostro Paese e più vicine alla corona inglese! È
noto che Robert Dudley fu anche amante di Elisabetta Ia e promesso sposo
di Maria Stuarda. Mica male come parentela, illustrissimo signor Conte.»
Paleotti scosse leggermente la testa: «Si vede che i Dudley hanno una tara
genetica, perché anche Cristina, nei suoi quasi sessant’anni di vita a
Bologna, ne diede parecchi di scandali… Ma sono cose passate e ormai
dimenticate … Veniamo a noi e alla ragione per la quale vi ho fatti venire
qui da Londra.»
«Mi sembra giusto. – confermò
Holmes – Ma accomodiamoci in salotto. Fra breve dovrebbe arrivare anche il
te. Si parla molto meglio davanti ad una bella tazza fumante.»
Ci sedemmo nel salotto della
stanza e mentre ci servivano il te, il Conte s’informò su com’era andato il
viaggio da Londra a Bologna.
«Splendido! – risposi convinto –
abbiamo preso l’” Indian Mail” e dopo venti ore appena, siamo scesi qui a Bologna… alle sei
dell’altro ieri. A proposito grazie di averci inviato la sua carrozza per
portarci all’albergo.»
Locandina inglese che pubblicizza |
«Figuriamoci, dovere! Anzi,
mi scuso io con lor signori di non essere potuto venire personalmente a
ricevervi. Ma sapete come vanno le cose…. gli affari….»
Le chiacchiere continuarono e
al termine il Conte volle sottolineare il piacere della colazione appena
conclusa: «Grazie, grazie davvero, era da svariato tempo che non gustavo un
te come questo.»
«Per la
verità – tenne a precisare Holmes – siamo noi a dovervi ringraziare, signor
Conte, dal momento che qui, a Bologna, siamo suoi ospiti e completamente a
suo carico, per cui anche questa spesa ve la troverete addebitata
dall’hotel.»
«È vero,
dottor Holmes… ma grazie lo stesso! A proposito di spese, dovremmo anche
parlare del vostro onorario, ovviamente da aggiungere ai rimborsi per viaggio
e soggiorno.»
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«Ovviamente…
Per quanto concerne il mio compenso, esso dipenderà anche dalla difficoltà
del caso che intende affidarmi e di cui, per la verità, non so ancora nulla;
ma tengo ad avvisarla, signor Conte, che i miei onorari investigativi sono
abbastanza elevati …»
Paleotti
prese uno dei pasticcini rimasto sul vassoio, lo guardò attentamente prima di
porselo in bocca, poi, accomodandosi meglio sulla poltrona, quasi a voler
essere più pronto ad esprimere il proprio pensiero, disse: «Non ne dubito,
dottor Holmes, e credo che le sue richieste siano del tutto giustificate,
vista la fama. Ma anch’io debbo avvisarla di un fatto: gli antichi, famosi
medici di Bologna, prima di curare un ammalato, sottoscrivevano il cosiddetto
“patto di guarigione”, un contratto
in cui si prevedeva che il medico fosse pagato solo se il paziente guariva.
Vorrei applicare questo principio anche nel nostro rapporto: il suo onorario,
quale che sia, sarà de me pagato e integralmente, solo se il risultato delle
indagini sarà positivo. Voi sareste d’accordo?»
«Sfida molto interessante,
signor Conte, direi quasi intrigante. Lei cosa ne dice, Watson?»
Io non nascosi la mia
perplessità e nel rispondere tenni un tono quasi di rassegnazione: «Caro
Holmes inutile chiedermi un parere quando è evidente che lei ha già preso la
sua decisione: ho visto dal suo sguardo che intende accettare al buio questo
incarico… prima, però, cerchi almeno di sapere di che sfida si tratta.»
Holmes mi guardò e annuendo
con un lieve cenno del capo, si rivolse a Paleotti:
«Il mio amico Watson è insostituibile. Allora, Signor Conte, quale sarà il
mio compito?»
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«Scoprire l’assassino
dell’orefice Camillo Coltelli, avvenuto qui a Bologna, nella notte fra il 19
e il 20 dicembre del 1882.»
A questo punto non potei
certo tacere, comprendendo benissimo come l’impresa che si richiedeva al mio
amico Holmes fosse decisamente impossibile: «Oltre due anni fa? E come si fa
a scoprire l’assassino di un delitto dopo tanto tempo? Io penso, Holmes, che
sarà opportuno ringraziare il Conte per la fiducia accordataci e per
l’ospitalità dataci in questi giorni e ritornarcene a Londra.»
«Caro Watson, non sono
d’accordo. Così posta, la sfida è ancor più affascinante. E poi, anche se la
perdessi… non è forse lei che ha detto che Bologna e bella ed interessante?»
«E questo che c’entra?»
«Elementare, Watson,
elementare: se rinunciamo all’incarico non avremo tempo per visitarla come si
deve. Se accettiamo, dovremo soggiornarci e quindi conoscerla meglio. – Mi sorrise
per rivolgersi poi a Paleotti con fare cortesemente
deciso – Accetto le sue condizioni, signor Conte, ma ora mi parli di quello
che è successo due anni fa a questo orefice Coltelli.»
Dopo essersi messo in bocca
un altro pasticcino e dopo un attimo d’attesa per poterne gustare la
squisitezza, il Conte diede il via al suo racconto: «Potrei cominciare dal
giorno dell’anniversario del mio matrimonio, quando mi recai nel negozio
dell’Orefice Coltelli, per scegliere il regalo da fare a mia moglie...»
Anni Prima…
…in via Orefici, il 14 novembre
1882, alle ore 18
Il Conte Paleotti entrò nell’oreficeria “All’insegna
delle tre spade” e salutò amichevolmente il vecchio titolare Camillo
Coltelli: «Ban
dè, Millèin”! (Buon
giorno Camillino)! »
Coltelli
contraccambiò con un altrettanto cordiale: «Mo guerda chi è que,
al mi amig Paleòt! Cum vela? (Ma guarda chi c’è qui, il mio amico Paleotti! Come va?)»
«Bene,
anzi, benissimo, sennonché … non so come dire… insomma fra tre giorni ci sarà
l’anniversario del mio matrimonio e sono costretto a festeggiarlo…»
«Cosa c’è
poi mai da festeggiare in un matrimonio, io non lo so proprio!»
«Per forza,
Camillo, tu sei sempre stato un libertino impenitente e questi problemi non
li puoi conoscere e, ovviamente, non puoi conoscere le spese che ci sono in
un matrimonio, soprattutto in occasione degli anniversari. Ho già messo fuori
un patrimonio per organizzare il ricevimento che farò a palazzo.»
Camillo
Coltelli sorrise: «No, non ne conosco di queste spese! Magari, però ne ho
delle altre…»
«Lo so, lo
so … e non è detto che siano inferiori alle mie!...»
«… Sì, però
danno ben più soddisfazione!»
L’orefice
interruppe il dialogo con una gran risata, per avvicinarsi alla porta
d’ingresso del negozio, socchiuderla e lasciare entrare l’aria: «La mia asma
sta peggiorando… – disse poi scuotendo la testa sconsolato, mentre tornava al
bancone – Sono andato anche da Murri, ma grandi benefici
non ne ho mica avuti.»
Poi cambiò
atteggiamento, diventando improvvisamente, ma ironicamente, serio: «Veniamo a
noi e alla tua visita qui, caro Michele. Hai detto che devi far spese? Bene,
bene… Devi fare un regalino a tua moglie, vero?»
«Non ne
posso certamente fare a meno!»
«E hai
fatto bene a venire da me! Mi sono arrivati proprio ieri dei gioielli
splendidi. Adesso te li faccio vedere.»
Così
dicendo, Coltelli aprì un cassetto del bancone, ne tolse alcuni vassoi in
velluto blu su cui erano sistemati diversi gioielli, che poi mostrò ad uno ad
uno all’amico (e cliente), vantandone le qualità ed il prestigio. Quando però
ebbe a terminare la rassegna, all’improvviso si rabbuiò, e urlò con un tono
fra l’irritato e il risentito: «Enrica, viene qui un attimo.»
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La ragazza
che apparve sulla porta del retrobottega era una ventenne decisamente bella,
per non dire avvenente: capelli nerissimi, ben raccolti sulla nuca ma che
lasciavano intendere che una volta sciolti, sarebbero stati fluenti e
lunghissimi; occhi grandi, anch’essi nerissimi, che lanciavano sguardi di un
ammaliante scintillio; il viso perfettamente ovale faceva da corona a due
labbra rosse quasi vivide, che contrastavano, rendendola più appariscente,
con la carnagione bianca, pulita e carnosa delle guance.
«Questa è
la mia “cuginetta” Enrica – disse
l’orefice non senza un sorriso malizioso e pieno di sottintesi – che ospito
qui da me per aiutarmi e per farmi da governante... è bravissima, la più brava
fra tutte le cugine che ho mai avuto a servizio!»
«Conosco,
conosco le tue “cuginette”,
Camillo! Complimenti, una splendida parentela, la tua!»
L’orefice
non sembrò dar peso alla frase di Paleotti, ma era
oltremodo inorgoglito dal complimento che aveva fatto alla donna e, quindi,
indirettamente anche a lui che l’aveva scelta.
«Enrica,
saluta il signor Conte Paleotti, non essere timida!
»
La ragazza
fece un inchino un po’ goffo: «Signoria vostra illustrissima.»
Paleotti
sorridendo le si avvicinò dandole un lieve cortese buffetto sulla guancia.
L’orefice, però, interruppe la scena e rivolto ad Enrica le disse con un tono
di voce alquanto sostenuto: «Non hai mica visto quel bracciale di diamanti e
rubini ch’era assieme a questi gioielli?»
«Sì, Signor
Coltelli, è nella cassaforte. L’ha riposto lì lei l’altro giorno, dopo averlo
mostrato al Marchese Fantuzzi.»
L’orefice
si diresse verso la cassaforte, ma fu fermato dal Conte: «Lascia perdere quel
bracciale, Camillo! – disse con voce, se non irritata, quantomeno inasprita –
Che figura mi vuoi far fare, rifilandomi quello che ha rifiutato un Fantuzzi? Fammi vedere qualcos’altro, dai.»
«Sì hai
ragione, scusa, però tu dimmi almeno cosa vuoi regalare a tua moglie: un
bracciale, un anello, una parure, un diadema, una collana…»
«Un anello
mi piacerebbe molto: un bello smeraldo incastonato fra brillanti.»
«Ce l’ho! –
proclamò soddisfatto Coltelli – Ed è davvero splendido e neppure troppo
costoso!»
Così
dicendo estrasse un altro vassoio su cui facevano mostra di sé una quindicina
di anelli e iniziò a smuoverli delicatamente col dito, per cercare quello che
aveva annunciato di avere. Ma non lo trovò e allora si rivolse di nuovo a
Enrica: «E l’anello dov’è finito?»
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«Non lo so,
signor Coltelli, non so neppure se l’ho mai visto. Forse l’avete venduto e
non ve lo ricordate…»
«Vecchio e
asmatico sì, ma tonto no, cara la mia “cuginetta”.»
Il sorriso
dell’orefice, fino a quel momento lietamente ironico, si era all’improvviso
trasformato in una smorfia amara e rassegnata.
«Camillo –
gli disse Paleotti, quasi volesse interrompere il
momento di tensione che si era venuto a creare – non posso mica stare qui
delle ore. Fammi vedere quegli anelli, così ne prendo uno e la facciamo
finita! Ho ben altro da fare, io!»
L’orefice
gli avvicinò il vassoio con gli anelli, poi si rivolse ad Enrica con voce
alquanto secca, seria e decisa: «Tu va sopra a fare le tue faccende, che poi
chiudo bottega e vengo su anch’io, che facciamo quattro chiacchiere fra noi.»
Enrica si
allontanò e appena fu scomparsa nel retrobottega l’orefice, abbassando la
voce, sussurrò: «Da un po’ di tempo qualcuno mi fa fuori dei gioielli... e
non riesco a capire chi possa essere…»
«Hai mai
pensato che questa Enrica…»
«Sì,
potrebbe essere, ma che convenienza avrebbe a rubare qui da me? Ha tutto da
perdere, nessun gioiello gli renderebbe migliore la vita che fa.»
«Ma dove
l’hai trovata quella nuova “cuginetta”?»
«L’ho
incontrata allo chalet dei Giardini Margherita, ci siamo piaciuti, le ho
proposto di farmi da governante in casa…. si fa per dire…. ha accettato, ed
ora sta qui da me.»
«E come si
chiama?»
«Enrica
Zerbini.»
«Enrica
Zerbini? – Paleotti spalancò gli occhi incredulo –
Ma lo sai che è una puttanella da strada che è già stata denunciata per
calunnia e ha già fatto due mesi di galera per truffa? Anzi sembra che nelle
case in cui ha lavorato siano sempre scomparse delle cose di valore.»
«No, no,
non è possibile! E tu come faresti a saperlo?»
«Me lo ha
detto l’Avv. Serpieri… lo conosci anche tu… Lui
l’aveva a servizio e l’ha denunciata per aver tentato di avvelenarlo. Dai
Camillo, svegliati! Questa volta ti sei messo in casa non la solita “cuginetta”, ma una serpe velenosa!»
Dal sito:: www.miabologna.it
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