PROLOGO
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Quelli che stavano esprimendo questi commenti erano seduti ad un tavolino dello Chalet della Passeggiata della Regina Margherita, e stavano bevendo fresche e dissetanti limonate per tentare di attenuare il caldo ancora estivo di quei primi giorni di settembre. Si trattava del barone Riccardo Canetoli, del Conte Giorgio Marescotti e del signor Tommaso Tubertini, i quali si erano così espressi all’arrivo di uno splendido “tiro a due” tutto in legno d’ebano che si era arrestato e aveva parcheggiato proprio accanto allo Chalet, evidentemente per farsi notare da tutti e, soprattutto, far notare chi lo stava guidando, “l’uravvz”, come era stato chiamato, ovvero, l’orefice Camillo Coltelli.
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Di elevata statura e con corporatura più massiccia che corpulenta, l’orefice era azzimato di tutto punto con bombetta grigia, giacca scura, cravatta a righe, scarpe lucidissime e il bastone di bambù sempre a portata di mano per darsi un tono d’importanza quando lo muoveva per accompagnare il passo o per indicare qualcosa. Aveva capelli bianchi tagliati all’umberta, folte sopracciglia grigie, bianchi ed imponenti baffi che gli sfioravano sia il naso pronunciato che le labbra carnose; gli occhi erano scuri e apparivano svegli ed attenti, nonostante una certa pesantezza delle palpebre che tentava di attenuarne la vivacità. Dopo essere sceso dal calesse con un saltello un po’ rigido, ma comunque ancora agile, si avvicinò al tavolino dei tre: «Buon giorno, illustrissimi! – Esclamò con grande e disinvolta cordialità, – Bella giornata vero?»
«Splendida! Ed è anche splendida la tua carrozza, caro Coltelli!»
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«Grazie, lo so, lo so. L’ho ordinata sei mesi fa al carrozzaro Daveri: ci sono voluti un bel po’ di soldi, ma sono riuscito ad avere proprio quello che volevo.»
«E i cavalli?»
«Sono dello stallatico dell’Orso. Garantiti di pura razza romagnola. Vengono direttamente dalla Carpegna!»
«Perché uno bianco ed uno nero?»
«Così, per un piccolo vezzo di originalità,…»
Mentre rispondeva alle domande, Coltelli si dirigeva verso il tavolino occupato dai suoi tre interlocutori e togliendosi la bombetta a mo’ di saluto, proclamò: «Seggo qui con voi per stare in compagnia, ma in compenso offro io a tutti la bevuta!»
Ma mentre stava per sedersi, si accorse che una signora, elegante ma certamente non di alto lignaggio, bellissima di viso e di forme giustamente pienotte, come doveva essere una donna piacevole e piacente, si era soffermata a guardare calesse e cavalli. Coltelli cambiò all’istante idea e, invece di accomodarsi, si diresse quasi di scatto verso di lei: «Belli vero? – Domandò senza pretendere risposta e conscio che non gli sarebbe stata data – La signora vorrebbe farci un giretto sopra? Arriviamo fino alle terme di Barbianello, ci rinfreschiamo con qualche bel bicchiere d’acqua della salute, poi la riporto qui. Le va?»
«E perché no? Una rinfrescatina con l’arietta del calesse e l’acqua di fonte è quello che ci vuole in una giornata come questa. Mi aiuta a salire?»
«Certamente.»
Dopo un reciproco sorriso, Coltelli porse la mano alla donna e l’aiutò a salire a cassetta, poi salì anche lui sempre con una certa agilità, ma senza dubbio inferiore a quella ch’era stata necessaria per scendere.
«Mi chiamo Camillo e lei?»
«Enrica…»
La frusta schioccò nell’aria senza sfiorare i due cavalli, le briglie si allentarono sui loro fianchi e il calesse si mosse leggero allontanandosi dallo Chalet.
«Vai, Giuda…. Vai Barabba… hop, hop…»
Gli “illustrissimi” signori Canetoli, Marescotti e Tubertini rimasero in silenzio guardandosi l’un l’altro e senza riuscire a commentare la scena, come invece avrebbero voluto fare, trovandola nello stesso momento oscena e ridicola. Fu Tubertini a parlare per primo:
«L è sänper un galàtt cl uràvvz… (E’ sempre un galletto quell’orefice…)»
«Sé, però sta vôlta l à truvè ónna galéina mégga mèl! (Si, però questa volta ha trovato una gallina mica male!) »
«Sé, sé, mégga mèl, ma ónna ed stäl vôlt al trôva anc ón bottasò! (Sì, sì, non male, ma una di ste volte all’orefice gli viene anche l’infarto).»
I tre risero poi, improvvisamente ritornarono seri: «Sé, va bän, mo adès chi pèga qué? (Sì, va bene, ma adesso chi paga?)»
La domanda fu ovviamente posta dal signor Tubertini, noto fra gli amici come “al taccàgn” (l’avaro).
Dal sito: www.miabologna.it
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