Capitolo 29 |
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Una scoperta in Piazza Maggiore
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Da quando Roby era definitivamente scomparso, a Sergio Silvani sembrò che la vita si fosse come svuotata. Forse le intense giornate trascorse insieme gli avevano talmente cambiato ritmi, interessi ed emozioni, da non più capire come avesse fatto, prima, a sopravvivere al tran tran a cui si era abituato; o, forse, l’aver scoperto, anzi, vissuto una Bologna mai immaginata e mai più ripetibile, aveva reso insulso fotografarla, trasformando così i suoi monumenti, le sue strade e le sue curiosità, in piccole cose per lui ormai di nessun interesse; o, forse, si era reso conto che in quel breve periodo aveva riprovato gli improvvisi vigori di una gioventù che credeva ormai perduta e che ora lo riportava a quello che effettivamente era: un uomo non più giovane che ben poco aveva d’aggiungere al nulla. Insomma, si sentiva all’improvviso vecchio, come se in pochi giorni fossero passati per lui molti anni. Certo, c’era Mara, e quando stava con lei, si dimenticava un po’ di tutto, ma erano alcune sera alla settimana. Lei era un alto funzionario di polizia e quel maledetto telefonino collegato con la Questura strillava continuamente. E quando succedeva, Sergio tornava a sprofondare nella sua insopportabile monotonia, perché oltre a questa, provava una specie d’invidia per l’attività, anzi, l’attivismo in cui la compagna era in ogni momento investita. Anche i momenti che trascorreva con Marisa erano utili a interrompere l’apatia, ma con lei si parlava di tutto e non di quello che effettivamente interessava loro. Lui non gli aveva mai dato una spiegazione, né lei l’aveva mai richiesta e proprio questo rendeva i dialoghi inconcludenti, senza succo, essendo l’una intenta a non invadere la riservatezza dell’altro, e l’altro a non aprirsi. C’era poi Balduzzi con le sue telefonate improvvise e perentorie, ma anche il mettersi in moto per andare a fotografare, si era trasformato per Sergio in una specie di routine solamente dovuta e non mossa da un sia pur minimo entusiasmo. E quando rispondeva “Vado…” la sua voce era opaca, quasi rassegnata. In definitiva, e più semplicemente, Sergio provava nostalgia di quel misterioso americano e dei misteri in cui era stato trasportato con tanta frenetica incoscienza. Tutto era finito e non c’era più nulla da scoprire. Sapeva tutto e aveva vissuto tutto in prima persona: i segreti dei Frati Gaudenti, il significato e la ragione d’essere di “Aelia Laelia”, l’esistenza effettiva del Santo Graal e il posto ove era stato definitivamente nascosto. E’ vero, c’erano tante cose di cui era ancora all’oscuro, e altre domande a cui dare una risposta. Soprattutto due lo tormentavano: sarebbe stato davvero impossibile smuovere quella roccia del finestrone e recuperare ciò che vi era stato nascosto da secoli? E perché Roby si era dichiarato vinto così, improvvisamente, non portando a termine il compito che come Gran Maestro dell’Ordine aveva assunto e che era essenziale per le finalità dell’Ordine stesso? Tutto era finito nel giorno convenuto, a mezzogiorno in punto. Sergio aveva ricevuto la sua telefonata: «Ciao – gli aveva detto Roby – sto salendo sull’aereo che mi riporta in America. Come ti avevo promesso, da questo momento puoi tornare a casa tua e vivere tranquillo. Fidati e buona fortuna.» Non gli aveva neppure dato il tempo di salutarlo ed era partito così, all’improvviso, né più meno di quando s’erano incontrati la prima volta. La cosa peggiore, però, era che in certi momenti, quando stava nella solitudine dello suo studio, Sergio si trovava a ripensare a tutte le storie che Roby gli aveva raccontato, subentravano in lui fortissimi dubbi sulla loro veridicità: il Sacro Graal che Re Enzo trasporta al Padre Federico II, la cattura a Fossalta, la prigionia a Bologna, l’affidamento della reliquia ai Frati Gaudenti, la creazione di “Aelia Laelia” per lasciare una traccia utile a recuperarla, il nascondiglio dov’era stato riposta per secoli. E questi dubbi sulla verità dei fatti storici, sia quelli noti, sia quelli “vaneggiati” da Roby, accrescevano lo svuotamento improvviso della sua vita che solo pochi giorni prima (ed anche se per pochi giorni), era stata entusiasticamente vissuta. Giunse la solita telefonata di Marco Balduzzi e per la prima volta, invece dell’ordine perentorio di andare a fotografare questo o quello, le sue prime parole furono di saluto: «Ciao, Sergio, come stai?» «Non c’è male! E tu?» «Lascia stare me! Dimmi di te, invece.» «Come sempre. Ti faccio le foto, prendo qualche caffè al giorno in bar confortevoli, leggo il giornale, gioco a bridge…» «E per il resto?» «Senti, Marco, non rompere! Dimmi cosa vuoi.»
«Va bene, essere gentili con un mulo è davvero un perditempo! Allora, trovami la Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini e fotografala!» «Ma non c’è più… è diventata una profumeria!» «Non me ne importa un cazzo di quello che è ora! Fammi le foto e portamele domani!» Click! Sergio guardò la cornetta e si fece una risatina come da tanto tempo non faceva. «Sta a vedere – pensò – che sarà proprio quello stronzo a farmi apprezzare di nuovo i tempi andati!»
Prese la sua macchina fotografica, uscì di casa, andò all’edicola per il giornale, montò sul suo motorino e partì alla volta di via D’Azeglio, angolo corte Galluzzi, dove, affianco all’antica Torre, c’erano alcuni resti di San Giovanni dei Fiorentini. Per fotografarne l’interno, però, dovette chiedere permesso alla profumeria che ne occupava lo spazio e qui, fra tersi espositori in vetro e metallo, luci indirette, vetrinette ricolme di saponi, rossetti, creme, si potevano intravedere le cupole della chiesa, gli anfratti delle antiche cappelle barocche ed i pregevoli stucchi degli ornati. Finito il lavoro se ne andò in piazza Maggiore, per sedersi al bar sotto i portici del Podestà e, leggendo il giornale, fumarsi la seconda sigaretta della giornata. La notizia non era da prima pagina, ma lo fece quasi cadere dalla poltroncina su cui si era seduto e, per la prima volta si dimenticò di accendersi la sigaretta, dopo aver sorbito il suo caffè. IL MISTERO DI PIAZZA DEL NETTUNO Si girò per guardare verso il Finestrone dell’Alessi dove, a circa mezzo metro alla sinistra della sua base, erano incassati i marmi incisi delle misure ufficiali in uso in periodo medioevale. Ma i due monumenti erano chiusi da transenne, e completamente oscurati da tavolati, come se vi fossero dei lavori in corso. Quando aveva attraversato la piazza e si era seduto al bar non ci aveva fatto caso. Si mise a leggere l’articolo del Carlino: «««« Oggi (ieri, per chi legge) alle 9,30, due operai specializzati intenti a ripulire i marmi delle Misure annonarie in uso a Bologna nel medioevo, si sono accorti che una delle tacche che delimitano tali misure era leggermente staccata dal bordo, tanto da muoversi orizzontalmente lungo l’incavo, come fosse il manico di un antico catenaccio. «Nel tirarla per controllarne la consistenza – ha spiegato al nostro giornale, Giorgio Ridolfi, uno dei due operai che hanno fatto la scoperta – ci siamo accorti che man mano che la facevamo scorrere a sinistra, si stava aprendo, non senza qualche lieve scricchiolio e caduta di polvere, una delle pietre decorate che si trovano nell’ornato sottostante il vicino finestrone. Abbiamo subito sospeso l’operazione e chiamato i nostri superiori.» Il tratto di strada è stato immediatamente transennato e le autorità competenti del Comune e delle Belle Arti hanno iniziato ad esaminare lo strano fenomeno constatato dagli operai.
In pratica agendo sulla tacca che permette di trascinare il ferro che si prolunga nel muro alla sua destra, si mette in movimento un ingranaggio che, funzionando come una leva interna e nascosta, agisce sul vicino “finestrone”. Tirando il ferro per circa un metro e mezzo lungo l’incavo del marmo, si apre la lapide centrale del basamento come fosse un’anta e si spalanca così il vano nascosto dietro. Abbiamo domandato al Dott. Adolfo Tannini, Direttore Generale del Museo Civico Medioevale, quale potrebbe essere la funzione di questo vano e cosa potesse contenere. «Difficile dare risposte certa a queste domande. – ha risposto l’interpellato – Per risolvere il mistero, o almeno far alcune supposizioni, bisogna prima individuare dei documenti antichi contenenti una qualche indicazione in merito. Molto difficile anche l‘inizio di questa indagine, perché a mia memoria, non ricordo nulla che parli di un qualche nascondiglio di questo tipo. Stranissimo, anche il fatto che esso sia stato così esposto al pubblico, addirittura su Piazza Maggiore, senza che nessuno ne abbia saputo l’esistenza e ne abbia almeno registrato un qualche riferimento. Per quanto riguarda la funzione del nascondiglio, possiamo solo prendere atto che il vano può essere stato costruito per occultare e riparare nei secoli qualche cosa ritenuta in quel tempo importantissima. Dentro però non si è trovato nulla e c’è da pensare che non si sia fatto a tempo a porvi dentro quanto previsto, oppure che si è poi cambiato idea.» Alla domanda su cosa potesse essere questa “qualche cosa” il Dottor Tannini ha rifiutato qualsiasi supposizione: «Al momento posso solo dire che l’esistenza del vano segreto è una scoperta del tutto eccezionale, che apre un nuovo filone d’indagine storica su Bologna e sui tanti misteri del suo passato. Il primo passo che faremo è quello di studiare il modo migliore per verificare i meccanismi interni che ne fanno funzionare l’apertura. »»»
Sergio si alzò dal suo tavolino e attraversando piazza Nettuno, si avvicinò alle transenne per cercare di verificare come fosse la situazione al suo interno. Ma la tamponatura del cantiere era completa e non esisteva alcuna fessura entro cui guardare. D’altra parte sarebbe stato inutile: conosceva benissimo le “misure annonarie del ‘300” e la finestra dell’Alessi e, soprattutto, conosceva cosa doveva esserci nascosto dentro al suo lapidone centrale. Eppure il vano casualmente scoperto era risultato vuoto. Pensò di andare a riferire a qualcuno degli esperti, magari allo stesso Dott. Tannini, quello che aveva scoperto con Roby, ma non era pensabile che lo avrebbero preso sul serio, anzi, lo avrebbero considerato solo uno stupido mitomane. D’altra parte, non aveva alcun documento con se, e soprattutto non aveva il messaggio nascosto all’interno di “Aelia Laelia”, l’unico scritto che avrebbe potuto dimostrare non solo l’esistenza del vano, ma anche quello che doveva nascondere. Né poteva neppure tentare di rammentarsi quella sconclusionata mistura di lettere e barre, tramite le quali si risaliva all’indicazione del nascondiglio. Accidenti alla memoria! Ricordava il senso del risultato finale, ma non certo le parole esatte, per cui anche una ricostruzione “a ritroso”, sarebbe risultata pressoché impossibile. Mentre così pensava, gli sorse però un dubbio angoscioso: e se avesse davvero ragione il Direttore Generale del museo? Rilesse il suo commento: “Per quanto riguarda la funzione del nascondiglio, possiamo solo prendere atto che il vano può essere stato costruito per occultare e riparare nei secoli qualche cosa ritenuta in quel tempo importantissima. Dentro però non si è trovato nulla e c’è da pensare che non si sia fatto a tempo a porvi dentro quanto previsto, oppure che si è poi cambiato idea.” Nel nascondiglio non c’è mai stato nulla! Se così fosse stato, tutta la sua avventura si basava su di un’includente invenzione. Si ricordò anche che lo stesso Roby aveva affermato che l’unica documentazione che poteva dimostrare la veridicità di quello che gli aveva raccontata era aprire il finestrone e trovarci il Sacro Graal. Nel nascondiglio non c’era mai stato nulla. Non era quindi il nascondiglio del Sacro Graal!. “Aelia Laelia” aveva mentito.
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