Capitolo 28 |
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Un intrigo internazionale a Bologna
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A Firenze, il console americano Bill Cooper lesse la missiva che gli era giunta da Bologna Spett. Corpo Diplomatico Usa
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Antioco Belforte si trovava in un ampio ufficio a palazzo de’ Banchi e dalla sua finestra poteva ammirare Piazza Maggiore in tutto il suo splendore. Era seduto ad una possente, lucida scrivania in noce d’epoca intagliato, su cui tutto era in ordine, come se chi la utilizzava avesse posizionato ogni oggetto con millimetrica precisione. Alle pareti quadri di importanti pittori bolognesi: una elegante Madonna di Lorenzino da Bologna, una scena biblica di Lucio Massari ed alcuni studi in sanguigna di Pellegrino Tibaldi. I ripiani degli antichi mobili erano pieni di pregiati volumi, tutti antichi e tutti catalogati ordinatamente secondo l’epoca e le tematiche trattate.
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Il suo telefono risuonò, era la segretaria che gli passava una chiamata. Attese un attimo, un po’ sorpreso poi parlò:
«Sì, sono io, dimmi.»
Stette ad ascoltare, in silenzio e senza interloquire per un buon quarto d’ora, poi sbottò:
«Senti, Bill, t’ho detto che l’affare è ormai in porto ed io mantengo le mie parole.»
Questa volta la cornetta non fu posata ma sbattuta sul suo supporto.
«Dannato burocrate!»
Si strofinò con una mano il mento come se volesse sentire se quella mattina s’era fatto la barba, guardò l’orologio, poi prese in mano un telefonino, componendo un numero. Non ricevette alcuna risposta. In compenso suonò di nuovo il telefono. Era la segretaria che annunciava una visita.
«Fallo entrare, poi puoi andare.»
«Sono appena le dieci, professore….»
«Non ho più bisogno di te, oggi.»
Quando il nuovo venuto entrò, Belforte, invece di alzarsi, si accomodò ancor meglio sulla sua poltrona, quasi volesse assumere un atteggiamento di superiorità quantomeno gerarchica.
«Buongiorno, Signor Roby James, - salutò gelidamente – o la debbo chiamare Don Didaco de Leon Garavita?»
«Faccia come vuole, professore. Non sono qui per fare salamelecchi.»
«Capisco, non è nella posizione più idonea. S’accomodi pure.»
«No resto in piedi. Non ci vorrà molto, ho solo un pacco da consegnarle.»
Roby appoggio sulla scrivania una scatola poco più grande di una da scarpe e gliela spinse lentamente in avanti.
«Di cosa si tratta?»
«Può guardarci dentro, non è un pacco bomba.»
Belforte, rimanendo seduto, si allungò avvicinandosi la scatola. L’aperse e ne guardò il contenuto. Accennò di sì con la testa, lentamente, senza mostrare alcun tipo di emozione.
«Vedo… Che cosa vuole in cambio? Perché un “do ut des” ci deve pur essere.»
«Sì, c’è, ma è poca roba per lei.»
«Ieri sera, due suoi incaricati si sono recati nei pressi della Casa editrice Balduzzi… o sbaglio? Dovevano compiere un’azione per lei… Ma non hanno potuto, perché invece dell’obiettivo hanno trovato me.»
«Vada avanti…»
Roby sorrise.
«Strane coincidenze ha il mondo. Lei ha in corso di pubblicazione presso Balduzzi uno studio sugli Stemmi dell’Archiginnasio e le foto da fare sono commissionate a Sergio Silvani… »
«L’ho conosciuto. Tipo strano, ma interessante.»
«Sono d’accordo. Solo che quando l’ha incontrato ha anche saputo che lui era in contatto con me, che mi conosceva e, forse, ha anche pensato che sapesse cose che le interessavano particolarmente.»
Belforte tacque. Si pose ancor più comodamente sulla poltrona dondolandosi lentamente sullo schienale elastico e fissando Roby in minacciosa attesa.
«Il suo progetto era semplice: prendere Silvani e, suo tramite, arrivare a me. Ma Sergio Silvani è stato un obiettivo sbagliato, non è un mio uomo, non sapeva e non sa nulla di quello che io e lei stiamo cercando… E qui, lei, Professore, ha commesso il suo errore. Fin quando non è apparso in scena il fotografo, io non sapevo chi potesse essere il mio competitore in questa caccia al tesoro. Ma ora lo so. E’ lei. Ieri Silvani ha telefonato a Balduzzi dicendo che aveva in mano una foto dello stemma di Don Didaco ben più bella di quelle precedenti e che gliel’avrebbe portata nel pomeriggio. Evidentemente Balduzzi l’ha informata perché quella foto le interessava, e lei ha mandato i suoi “incaricati” ad attendere Silvani, per fare ciò che non erano riusciti a compiere per ben due volte. Ho controllato di persona. Ieri pomeriggio alle sei i due erano in agguato là davanti alla Casa editrice. Invece sono arrivato io ed ora i suoi “ragazzi” non possono più nuocere…»
Il professore parve non dare alcuna importanza a quello che Roby gli stava dicendo ed indicò la scatola che aveva davanti a se:
«”Do ut des”… Tu dai una cosa a me ed io do una cosa a te… Allora, Don Didaco, venga al sodo, cosa vuole da me?»
«Per me nulla. Fra due ore non sarò più a Bologna. Vorrei solo fare una telefonata a Silvani per dire che l’avventura è finita, che nessuno lo cerca più e che da questo momento può girare per Bologna senza pericolo.»
«Quanto sa Silvani di questa storia?»
«Solo l’inizio. Sa che sono uno studioso che cerca di risolvere l’enigma della pietra. Mi ha aiutato a farlo, ma nulla più.»
«Ed io le debbo credere?»
«Se vuole risolvere i suoi problemi con quello che le ho portato sì. Se no, nemici più di prima, prendo il pacco e me ne vado.»
Il Professor Belforte per la prima volta da quando Roby era entrato nel suo studio, si alzò dalla sua poltrona: ora era teso, pur mantenendo la ferma sicurezza che l’aveva contraddistinto nel colloquio. La sua mano impugnava una pistola:
«E chi le dice che io, ora che l’oggetto è qui, le permetta di prenderlo e di portarselo via?»
«Riponga tranquillamente l’arma. Lei è troppo intelligente per fare una pazzia inutile, non perché non ne sia capace, ma perchè non le conviene. Difficile spiegare un morto in questo studio e non per la polizia, ma per chi le ha commissionato questa sua missione a Bologna. D’altra parte, lei non vede l’ora di prendere il primo aereo per l’America e dimostrare la sua capacità ai suoi datori di lavoro recando loro il regalo che io, oggi, le ho portato. Uccidermi complica enormemente le cose, per lei, come anche eliminare Sergio Silvani. Bologna tornerà per tutti e due una lontana città italiana, molto simpatica, sì, ma altrettanto irraggiungibile. I nostri prossimi scontri, se ce ne saranno, dovranno essere al di là dell’Oceano, non qui.»
Belforte sorrise:
«Fra persone intelligenti ci si capisce subito. Vada, Don Didaco, e stia tranquillo, il suo amico fotografo non verrà più… disturbato.»
Roby, senza proferir parola si volse e si avviò per uscire dallo studio, ma la voce di Belforte lo costrinse a fermarsi:
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«Mi dica però una cosa, Don Didaco: lei fa tutto questo per che cosa? Non mi dica che lei sta tradendo l’Ordine di cui è Grande Maestro, per una persona che appena conosce. Ne vale davvero la pena?»
«Tradire l’Ordine? – rispose Sergio restando con le spalle rivolte a Belforte - No, l’Ordine è d’accordo con me. E’ nato per la pace e persegue la pace. Ama il prossimo tuo come te stesso… Ma già, questo lei non potrà capirlo mai!»
Poi si girò, tornò sui suoi passi ed estrasse dalla tasca un foglietto di cartone, porgendolo a Belforte.
«Credo che anche questa le potrebbe interessare. È la foto dello stemma che i miei antenati hanno all’Archiginnasio. Quello da cui, in fondo, ha avuto inizio tutta la storia. È l’ultimo regalo che le faccio… lo tenga come mio ricordo o, meglio, come promemoria per tener presente che il Gran Maestro dei Frati Gaudenti, se necessario, la potrà raggiungere in qualunque momento e ovunque.»
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