Capitolo 21

Fuga in vicolo San Damiano

 

L’attesa di Sergio nella stanza dov’era stato isolato, era insopportabile e resa ancor più penosa da una certa stanchezza fisica, dall’intransigente silenzio del poliziotto di guardia e dalla puntigliosa vista di un orologio a parete che sembrava non muoversi mai. Lo distraevano da quell’attesa il continuo controllo della valigetta ed il pensare cosa mai potesse contenere lo scrigno ch’era stato nascosto per secoli dentro la lapide, ma ciò, invece di far passare il tempo sembrava rallentarlo. Già, il tempo, quell’essere mostruoso che quando aspetti e null’altro hai da fare se non aspettare, invece di avvicinare, allontana sempre di più ciò che aspetti. Finalmente la porta si aprì. Il poliziotto si portò la mano alla fronte e fece passare Mara, che con un cenno del capo, lo fece uscire.

«Sono qui, finalmente… Quei giornalisti ne fanno perdere di tempo!»

Sergio si alzò e sfiorò con le labbra il volto di Mara. Ma non era tempo per le smancerie, sia perché non sapeva ancora se Mara le avrebbe gradite, sia perché ben altro era necessario fare.

«E adesso – le disse – che facciamo?»

«Semplice, usciamo di qui e ti accompagno dove vuoi.»

«Questo era l’accordo. Ma usciamo da dove?»

«Non certo su piazza Galilei, ma da dietro. Anche noi abbiamo… come dire?… uscite di sicurezza.»

Sergio pensò un attimo come se volesse misurare le parole.

«Fin qui tutto bene, ma è il dopo che mi preoccupa.»

«In che senso, scusa?»

«Io ho un posto sicuro dove andare, ma vorrei arrivarci da solo. Ad un certo momento dovrete quindi lasciarmi andare.»

Mara rimase molto sorpresa da questa sortita.

«Non ti fidi di noi?»

«No, figuriamoci! Non mi fido di chi mi sta cercando. Non è da escludere che sia qui attorno aspettando che io esca, non importa se da solo o se scortato. Se c’ò non faccio altro che portarlo nel mio nascondiglio e con voi è più facile essere seguiti e controllati. Immagina la scena, Mara: noi usciamo io te e, magari, un paio di poliziotti in divisa. Ci vedono, ci seguono, andiamo nel mio nascondiglio e per loro è fatta. Basterà attendere l’occasione…. Ma anche questo sarebbe poco importante! Il fatto è che così andiamo anche a coinvolgere chi mi sta dando aiuto e ospitalità. No! Ad un certo punto devo arrangiarmi da solo.»

«Neppure se una volta che tu sei al sicuro, io piazzo una scorta per proteggere te e gli altri, chiunque siano?»

«Tu hai visto come hanno fatto ad asportare da un museo una lapide di duecento chili… Figurati cosa ci mettono quelli a beccarmi… qualsiasi cosa vogliano fare di me. No, ribadisco, ad un certo punto devo arrangiarmi da solo.»

«Perché ti vogliono, come dici tu, “beccare”?»

«Vattela a pesca! Non so neppure chi sono. Sto studiando quella maledetta lapide e cercando di risolverne l’enigma. Anche Roby sta facendo altrettanto… e qualcuno - ti giuro che non so chi sia - ci sta cercando, o per conoscere i risultati che stiamo ottenendo, o per impedirci di andare avanti. È tutto quello che so, anzi che immagino di sapere.»

Mara si mosse verso la porta:

«Andiamo, è ora!»

«Però quando lo decido, tu mi abbandoni al mio destino!»

«D’accordo… non sono convinta, ma lo farò. Non farti “beccare”…»

«Lo farò per te…» Rispose con triste malizia Sergio, stringendo ancor più la valigetta che teneva saldamente in mano e seguendola.

Mentre percorrevano i corridoi della Questura, scendevano scale, passavano attraverso stanze e stanzette trasformate in polverosi archivi, Mara salutava i colleghi che incontrava un po’ ovunque, mentre Sergio la seguiva, apparentemente assente, come fosse un automa mosso da fili invisibili. In realtà stava meditando sulla strada che doveva prendere appena usciti, dove dirigersi e in che punto lasciare la scorta. Uscirono in via Volto Santo da una porticina che sembrava vecchia ed arrugginita. Dalla parte opposta due uomini apparentemente anonimi fecero un cenno a Mara per comunicarle che lì era tutto tranquillo.


Il primo grattacelo costruito a Bologna

«Andiamo a sinistra.» Le disse sottovoce Sergio che, dopo aver seguito Mara, ora doveva guidarla attraverso la città. Notò che anche i due uomini si era immediatamente mossi e li stavano seguendo discretamente ad una certa distanza.

Marisa Aldrovandi abitava all’angolo fra via Riva Reno e via Marconi, in quello che forse era stato il primo grattacielo sorto a Bologna. La strada per arrivarci non sarebbe stata lunga, in una situazione normale, ma Sergio non voleva assolutamente arrivarci con Mara e forse, non voleva neppure arrivarci da solo, per non coinvolgere Marisa in quella vicenda. Poteva tornare alla Torre dei Catalani, certamente rifugio più idoneo e sicuro, ma Roby gli aveva detto che si sarebbe poi fatto vivo lui, il che implicitamente indicava che almeno per il momento, la torre era da evitare. Ora però occorreva andare nel punto più idoneo per restare solo. Sorridendo fra se e forse per abbassare la tensione, pensò che poteva tornare alla Grada e ripercorrere in senso contrario il canale… c’era anche il suo motorino all’uscita! Una stupidaggine, ma l’idea di “scomparire” sotto la città non sarebbe stata male.


Via Castiglione

Fu allora che gli venne in mente un gioco che faceva da bambino dov’ era nato e vissuto, in via Castiglione.

Chissà s’ era ancora possibile farlo?

Certo, il divertimento sarebbe stato senz’altro minore, ma il risultato, quello di sfuggire agli inseguitori armati allora di cerbottane o fionde, e oggi di ben altri strumenti, poteva essere lo stesso.

«Andiamo in piazza Minghetti. - Sussurrò a Mara – Lì ci lasciamo.»


Monumento a Marco Minghetti

Si diressero verso via D’Azeglio, presero poi via Farini e giunsero in pochi minuti in piazza Minghetti all’ombra della statua dello statista che, con quel cilindro che porge in avanti rovesciato sembra un mendicante e, in fondo, lo era stato davvero, perchè come severo e rigido Ministro delle Finanze del Regno, aveva l’abitudine di richiedere soldi a chicchessia.

Sergio guardò Mara:

«Ci siamo… Ora, Mara, puoi lasciarmi… Di’ di andarsene anche agli altri della scorta!»

Lei non rispose, limitandosi a un breve accenno di assenso. Si guardò intorno come per verificare che non vi fossero pericoli e si allontanò. Sergio la stette a guardare, notando che anche gli altri poliziotti stavano facendo altrettanto. Ora era solo, pur se in mezzo alla gente che c’era nel giardinetto della piazza, ma sapeva benissimo che fra essa poteva esserci qualcuno che gli voleva male, mentre non era da escludere che Mara avesse predisposto le cose in modo che qualcuno lo potesse ulteriormente seguire e proteggere.

Si mosse cercando di mantenere un atteggiamento disinvolto.


Palazzo Zambeccari


Casa Saraceni

Su via Farini, dove ora Sergio si trovava, sorge Palazzo Zambeccari, un bello stabile fine ottocento di linea “imperiale”, ma che nasconde all’interno numerose tracce di strutture dei secoli precedenti. Passando sotto l’ampio portico, Sergio si avviò verso vicolo San Damiano, un brevissimo viottolo stretto e cieco che nessuno avrebbe ritenuto sicuro, in quanto isolato e sfociante in un cortile dove sarebbe stato impossibile sfuggire ad un qualsivoglia agguato. Impossibile per tutti, ma non per lui. Entrando nel vicolo non potè fare a meno di ammirare la quattrocentesca Casa Saraceni, costruita attorno alla torre di Bortolotto che però ormai nulla ha della sua millenaria esistenza, essendo stata in tempi recenti riattata in mansarda stile liberty.

Sergio si guardò indietro ma non notò nulla di particolare: o non era seguito, oppure non lo poteva accertare con sicurezza. Ma la cosa aveva poca importanza, il problema poteva sorgere entrando nel cortile una specie di “cul de sac”, dove l’ampio ma deserto spazio avrebbe potuto rendere più facile l’azione di qualsivoglia malintenzionato.


L’androne di vicolo San Damiano

In fondo, nell’angolo sinistro del cortile, si apre in una specie di piccolo androne da dove, scendendo alcuni malridotti gradini, si raggiunge un grande scantinato. Sergio cercò di rammentare: c’era sì una porta che ne impediva l’accesso, ma era stata sempre aperta e, se anche fosse stata chiusa a chiave, ricordava benissimo che bastava la spallata di un bimbo per aprirla. Quella era la sua meta, per scomparire e sfuggire ad eventuali inseguitori.

A metà strada di vicolo San Damiano, Sergio aumentò la sua andatura fin quasi a correre, ma mentre stava per raggiungere l’androne, sentì un forte colpo sul costato che lo fece barcollare. Gli parve una di quelle secche gomitate che riceveva spesso da un avversario quando giocava a basket e saltava per andare a canestro, ma mentre in quei casi sapeva benissimo di che cosa si trattava, ora non se ne rendeva conto. Il dolore era lancinante e si accasciò a terra a pochi passi dalla meta della sua corsa. Non capiva cosa potesse essere successo, ma il colpo c’era stato e faceva sentire le sue conseguenze. Girò la testa verso il vicolo, e vide che due uomini stavano correndo verso di lui con le pistole in pugno. Li riconobbe: erano Red Conolly e Willy Twain! Che cretino ch’era stato a cercar la fuga in un “cul de sac” da dove non sarebbe potuto uscire e dove – ora se ne rendeva conto benissimo – si stava compiendo quello che non era successo tre notti prima nel canale Reno.

Ma mentre arrancando faticosamente cercava di rialzarsi per tentare una ormai impossibile fuga, vide i due uomini girarsi improvvisamente, dandogli le spalle, per sparare all’impazzata verso l’entrata del vicolo. Non sentiva alcuno sparo, ma solo dei brevissimi “plop” ripetuti all’impazzata, segno che le armi avevano il silenziatore. Se non sentì la sparatoria che pure si svolgeva ad appena una quindicina di metri da lui, udì invece ben distinta la voce di Roby che gli urlava:

«Scappa, Sergio, scappa.»

Si rialzò, notando che il dolore stava riassorbendosi in fretta e solo allora ricordò che indossava il giubbotto antiproiettile che Roby gli aveva imposto d’indossare prima di uscire.

Rinfrancato e nuovamente convinto di farcela, scese di corsa la breve scala dell’androne e con grande piacere trovò la porta aperta. Entrò e la richiuse con quel grosso catenaccio interno che ricordava esserci e che assicurava la porta molto meglio della usuale serratura a chiave. Il catenaccio sembrò saldato dalla ruggine (era ben più oliato e funzionante quand’era bambino!) e lui dovette sforzarsi al massimo per smuoverlo, tanto che il dolore del costato si rifece vivo. Ma non si fermò, spingendo e girando con ansiosa tenacia la leva del catenaccio. Ci volle del tempo (pochi attimi che parvero non finissero mai) prima che il ferro cominciasse a cigolare e, quindi a muoversi, fino a scivolare nei due anelli infissi nell’altro battente e chiudere definitivamente la grossa porta dall’interno. Era fatta! Chiunque l’avesse visto entrare in quello scantinato non avrebbe potuto più seguirlo e, se anche lo avesse potuto fare, non avrebbe saputo da dove uscire.

Aprì la valigetta e dando un’occhiata al prezioso cofanetto, estrasse la pila con cui ore prima Roby aveva esaminato la lapide, l’accese e se la pose in testa. Guardò il lungo corridoio che aveva davanti: era privo d’intonaco e con gli antichi mattoni spolverati da un bianco che il tempo e la muffa aveva quasi completamente corroso. Anche il pavimento era di mattonato reso molto sconnesso da secoli di camminamenti. Ai lati del corridoio una serie di cancelli in legno usurato, indicavano le cantine del palazzo. Iniziò ad avanzare seguendo il corridoio che spigolava a destra e sinistra, cercando di ricordare quel percorso che tante volte da bambino lo aveva visto entrare da via San Damiano, correre attraverso lo scantinato ed uscire dall’altra parte dello stabile a circa un centinaio di metri da dove era entrato. Allora lo percorreva al buio ed orientandosi d’istinto, oggi aveva la lampada che illuminava la strada, ma gli sembrava molto più difficile, quasi fosse in un labirinto. Meglio così, pensò, se trovava lui queste difficoltà, immaginiamo come si sarebbero trovati eventuali inseguitori.

    
Palazzo Guastavillani e il suo portico

Il suo camminare durò più o meno cinque minuti, e l’uscita non sembrava arrivasse mai, ma alla fine si trovò davanti ad un portone quadrato di legno massaggio, chiuso a chiave. Esaminò la vecchia serratura: era come l’aveva lasciata quarant’anni prima. Un pomello d’alzare ed un catenaccio da far scorrere. Aprì la porta e si trovò in una breve loggia chiusa, sul cui sfondo c’era un grosso portone. Era quello che, come tante volte decenni prima, gli avrebbe permesso di uscire di nuovo all’aperto e di sfuggire definitivamente ai monelli che lo inseguivano quand’erano bambini.

Come allora, Sergio ora si trovava sotto un portico di via Castiglione, al di là del quale, fra vicolo Monticelli  via de’ Chiari, s’innalzava l’imponente quattrocentesca mole di palazzo Guastavillani.

Ora doveva raggiungere la casa di Marisa.

 

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