Capitolo 18 |
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Un bunker tedesco
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Dopo un quarto d’ora, la moto giunse in via Pasubio, dov’era l’ingresso del bunker che si raggiungeva attraverso un breve viottolo di separazione fra due condomini e si fermò all’angolo con via Montello. I due passeggeri non scesero, non si tolsero i caschi integrali e si misero semplicemente ad aspettare gli eventi. Il bunker tedesco è un grosso parallelepipedo in cemento armato, seminterrato nei pressi dell’antico Canale Reno. Fino agli anni cinquanta il canale era scoperto, non c’erano i palazzoni di oggi e il bunker era isolato in mezzo alla campagna e visibilissimo in tutta la sua potente, grigia struttura, senza per altro essere ancora intonacato di giallognolo e senza avere il tetto trasformato in terrazza, come invece è poi avvenuto alla fine della guerra.
Su via Sabotino, dall’interno di un piccolo parcheggio privato, è possibile vedere un’intera ala del bunker e verificarne lo spessore di quasi due metri dalle aperture delle finestre. Sempre su via Sabotino e accanto al parcheggio, in un giardinetto che declina per due o tre metri verso l’antico argine del canale, si vede anche parte della massiccia base di sostegno, che dà un’ulteriore idea di come questa fortezza fosse in pratica indistruttibile. Il bunker è tanto imponente e resistente che i costruttori edili autorizzati ad edificare sull’area un palazzo di cinque piani, ritennero più conveniente usufruirne come fondamenta, piuttosto che abbatterlo ed asportarne o riutilizzarne le macerie. Quando i poliziotti giunsero e circondarono il posto, numerosi curiosi si affacciarono alle finestre delle case circostanti ed anche i passanti si fermarono a guardare cosa mai succedesse. Furono tutti allontanati ad una distanza di circa una ventina di metri dal luogo dell’operazione ed il traffico sulle strade limitrofe fu fatto deviare fra le imprecazioni degli automobilisti. Al comando di Mara Lucchini una squadra di una decina di poliziotti entrarono nel bunker esaminando ad una ad una le porte numerate d’acceso alle cantine in cui lo stabile militare era stata suddiviso. Una di queste risultò in ferro e senza numero identificativo ed ovviamente attirò l’attenzione dei poliziotti, che la batterono ripetutamente coi calci del mitra, ordinando di uscire a chi eventualmente fosse all’interno. Non vi fu nessuna risposta. Mara allora prese il megafono e comunicò ad alta voce il suo grado, intimando di aprire e di uscire a mani alzate. Da una porticina numerata uscì timidamente un vecchietto con una bottiglia di vino in mano, che fu subito accompagnato fuori dallo scantinato-bunker. Nessun’altro si fece vivo per cui la donna, ripetuta l’intimazione, diede ordine di sfondare l’ingresso, che resistette ai primi deboli tentativi fatti dai poliziotti presenti. «Fate venire Vasquez!» Il nome non doveva trarre in inganno, Rosario Vasquez era un siciliano puro sangue che aveva l’incarico di artificiere. Era la prima volta, e chissà da quando, che si usava il plastico a Bologna per stanare qualcuno, ed era la prima volta anche per lui che aspettava questa occasione da quando era entrato nel corpo di polizia con tale qualifica. Si avvicinò alla porta che doveva minare, la palpò e vi battè sopra le nocche per sentire di che materiale era fatta e lo spessore. I cardini erano interni ed il punto dov’era la serratura gli risultò particolarmente protetto e rinforzato da altra lamiera. Vasquez si rivolse a Mara: «È in ferro, direi spessa due centimetri. Se vi è qualcuno all’interno, la porta dovrebbe essere protetta da catenacci chiusi a mano, forse anche da barre di sicurezza. Ho paura che per farla saltare occorra una bella carica di esplosivo, ma siamo in un bunker. Non ci dovrebbero essere danni all’esterno.» «Eventuali alternative?» «Sembrerebbe più debole il muro. E’ una semplice divisoria in mattoni, probabilmente forati e non portanti. Agire su di esso sarebbe meno problematico e meno rischioso.» «Escluso, l’interno deve rimanere intatto.» «Allora procedo sulla porta.» «Affermativo.» Vasquez vi si avvicinò, battè con un martelletto sul lato dove avrebbero dovuto esserci i cardini, ed usando uno stetoscopio, li individuò dal diverso suono emesso. Segnò col gesso i tre o quattro punti, poi fece altrettanto sugli altri lati, segnando là dove l’eco dei battiti diventava più serrato e cupo. Applicò quindi minuscole barrette al plastico, unendo gli innesti in un apparecchio di radioricezione. L’operazione durò diversi minuti anche perché la dosatura del plastico fu fatta utilizzando un bilancino di precisione. «Adesso allontanatevi tutti ed uscite. State ad almeno una trentina di metri dall’ingresso del bunker.» I poliziotti uscirono tranquillamente. L’ultima fu Mara, seguiti dopo alcuni secondi da Vasquez: «Vado, Commissario?» «Vai pure.» Rispose Mara e l’artificiere premette il bottone del trasmettitore a cui seguì, quasi in contemporanea, il forte boato dell’esplosione e la fuoriuscita su via Pasubio di un grigio polverone misto a minuscoli frammenti di calcinaccio. La nuvola si sparse d’intorno e nessuno dei poliziotti fu sfiorato da essa. «Se i miei conti tornano – disse Vasquez – quando rientriamo dovremmo avere la porta completamente staccata dal muro e sbattuta a terra. Ho fatto in modo che lo spostamento d’aria creato dall’esplosione, non la gettasse lontana, creando danni interni. Per fortuna che c’era il bunker, se no, non so cosa sarebbe capitato all’edificio sovrastante.» «Se non c’era il bunker, tu non saresti qui.» Commentò Mara freddamente, ma con soddisfazione, poi, alzando la voce, ordinò alla squadra: «Incursione!» Sulla moto, Roby e Sergio guardarono l’azione. «Sembra che tutto proceda bene – disse Roby – Se la lapide è lì, tra poco dovrò entrare in azione anch’io.» «Come, se la lapide è lì?» gli domandò Sergio «Sei stato tu a dire che è lì nel bunker, non io.» All’interno del bunker la porta di metallo della cantina fu esattamente trovata dove e come aveva previsto Vasquez. Un poliziotto entrò puntando il mitra protetto da due colleghi che tenevano sotto tiro il vano del locale e alla luce delle torce puntate da altri due. non vide nessuno e lo comunicò ad alta voce agli altri. Le armi furono abbassate e si attese l’arrivo di Mara che giunse dopo pochi secondi. Nonostante l’esplosione la cantina appariva sostanzialmente pulita e solo nei pressi dell’accesso si era sparsi calcinacci e polvere. Mara si fece dare una torcia e la proiettò verso le pareti. Appoggiata a quella di destra apparve “Aelia Laelia”. Sembrava quasi incandescente: forse era la luce che le si rifletteva sopra, ma dava l’idea che fosse proprio lei ad emanare una propria, magica luminescenza. Mara uscì dal bunker piazzandosi davanti alla sua entrata, su via Pasubio. Suonò il suo telefonino. Era Sergio che chiedeva se aveva trovato la lapide. «Sì, potete venire, la lapide è vostra.» I due scesero dalla moto senza togliersi i caschi. Roby teneva stretta la valigetta con una mano, mentre l’altra stringeva la pistola nascosta sotto la giacca. Mentre si avvicinavano al viottolo che portava all’ingresso del bunker, i poliziotti stavano uscendo. Mara vide i due avvicinarsi e andò loro incontro: «Un’ora soltanto. Ma entrate tutti e due.» «Questi non era nei patti.» Precisò Roby. «Non posso farla entrare solo, signor James. Mi dispiace. Io conosco Sergio, ma non lei e lì dentro c’è qualcosa per la quale ho movimentato tutto il reparto e senza informare i miei superiori. E’ una procedura oltremodo irregolare, di cui mi assumo tutte le responsabilità, ma non posso andare oltre, senza conoscere cosa possa succedere lì dentro, quando lei sarà solo.» «Senti, Roby – intervenne Sergio – Ormai siamo insieme e più o meno siamo complici nel bene o nel male. Che io sappia qualcosa di più o non lo sappia, non cambia nulla. E poi hai detto che hai bisogno di me! Non so per cosa e quando, ma potrebbe essere ora, lì dentro.» Passarono pochi secondi che a Mara e Sergio sembrarono ore. «Andiamo.» Concluse Roby ed entrò nella cantina togliendo finalmente la mano da sotto la giacca. Sergio lo seguì guardando e sorridendo a Mara.
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