Capitolo 9 |
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L’appendice ad Aelia Laelia
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Nel silenzioso caotico squallore del suo soggiorno-studio in via Centrotrecento, quasi accanto al Collegio Illirico Ungarico, Sergio Silvani stava leggendo il consistente trattato che Roby aveva scritto su “Aelia Laelia” e che Mara gli aveva consegnato quella mattina. Avanzando nella lettura, gli sembrò che ci fosse ben poco che non conoscesse, solo qualche dettaglio storico e alcune inedite considerazioni di letterati americani che non sapeva chi fossero o non ricordava. Roby lo stava deludendo. Più che inventiva ed intuizione, quello che scriveva sembrava un rimescolamento di dati, osservazioni e commenti già triti e ritriti in altri testi. D’altra parte Sergio conosceva bene la storia di “Aelia Laelia”, che in grandissima parte aveva appreso dal libro che aveva acquistato, proprio il giorno in cui aveva conosciuto Roby. Così, man mano che sfogliava le pagine del documento, la sua lettura si fece così poco scrupolosa (e tanta annoiata) da non più considerare con la dovuta attenzione quello che c’era effettivamente scritto. Tant’è che, solo dopo essere andato molto avanti con la lettura, si ricordò di non aver valutato adeguatamente un paragrafo precedente che aveva solo scorso, ma non letto. Riguardò le pagine indietro, ritrovò il paragrafo e lo rilesse lentamente parola per parola. “La pietra di Bologna è incompleta. Ritengo che, nel 1616, quando fu fatta ricopiare dall’originale, fu omessa un’ultima frase.” “HOC EST SEPULCHRUM INTUS CADAVER NON ABENS “Questo è un sepolcro
che non contiene cadavere Sergio sapeva che in altri documenti che riportavano il testo della lapide, apparivano alla fine queste tre righe, ma tutti i commentatori più qualificati non avevano dato alcuna importanza al fatto che questa aggiunta ci fosse o meno, anzi, molti di loro affermavano ch’era un vero e proprio falso che nulla cambiava nella compiutezza del contenuto della Pietra di Bologna. Pensò che forse proprio per tale ragione non aveva posto la dovuta attenzione a questo passo del trattato, e di aver quasi sorvolato sulla successiva, importante annotazione di Roby: “Solo con questa aggiunta, che non è affatto un’aggiunta, ma la sostanza stessa della lapide, si spiega la ragione dell’esistenza della Pietra di Bologna, pur non svelandone appieno l’enigma che aleggia nel suo contenuto.” E così, uno sconosciuto studentello americano sconfessava tutti gli eruditi del passato e del presente, e rivalutava a tal punto un’aggiunta ritenuta spuria, da renderla fondamentale per carpire il mistero della lapide. A questo punto, però, a Sergio subentrò un dubbio che un qualsiasi psicologo avrebbe definito “esistenziale”. Ma cosa ci faceva con quei fogli in mano? Perché si addentrava sempre più in una vicenda che non gli apparteneva? Che gliene fregava a lui di Roby, della sua scomparsa e dell’enigma di “Aelia Laelia”? Perché doveva riprendere una professione dimenticata, quale quella dell’investigatore, che l’aveva annoiato per più di quindici anni? Che ci guadagnava? Facendo spallucce ed una smorfia forse un po’ forzata di menefreghismo, abbandonò con rabbia sulla tastiera del computer i fogli che stava leggendo, si alzò dalla scrivania, si tolse con una certa indolenza la camicia ed i pantaloni, lanciò le ciabatte più o meno là dove le aveva lasciate prima di mettersele e se ne andò a letto, non senza accendersi l’ultima sigaretta. Ma non dormì, o gli parve di non riuscire ad addormentarsi. La lapide veleggiava nella stanza come un foglio smosso in aria da un debole vento e lui la seguiva con gli occhi. Capì che il sonno non sarebbe più venuto e allora si rialzò dal letto, ritornò alla scrivania e accese il computer. Il trattato di Roby era lì, invitante, vicino alla consolle, ma Sergio lo allontanò e aprì la casella delle e-mail per vedere se c’era posta. Nulla, tranne i soliti centomila comunicati pubblicitari che intasavano la sua casella. Li cancellò tutti. Passò, quindi, al suo archivio fotografico, per riordinare le immagini scaricate negli ultimi giorni, ma lo fece con malavoglia e di lì a poco uscì definitivamente dal sistema. Stette un attimo pensieroso e stravaccato sulla sua poltroncina a rotelle con le braccia appoggiate sulle ginocchia, poi, però, lo sguardo si diresse lentamente sui fogli abbandonati a lato del computer e qualche cosa lo spinse a guardare quello su cui stava meditando appena una mezzora prima: “Questo è un sepolcro che
non contiene cadavere Capì che “Aelia Laelia” gli era entrata in corpo e che non se ne sarebbe più liberato, almeno finché non fosse stato ritrovato Roby. Capiva che non poteva resistere. Forse era colpa del destino, che nel suo caso era rappresentato dalla pura casualità di un incontro. Forse era l’intimo piacere di tornare ad essere un investigatore, ma per indagare non su fatterelli coniugali, ma su un grande caso irrisolto. Forse era la voglia di affrontare un’avventura più grande di lui e che vedeva partecipe anche una bella donna. Non ne capiva la ragione, ma la lapide per lui non era il solito soggetto fotografico da inserire nel suo archivio computerizzato, ma una cancrena definitivamente penetratagli nel cervello. Subiva il fascino o, meglio, la magia di quelle righe incise sul marmo ed eternate nell’incomprensibile enigma che contenevano. Con un sospiro di irritata rassegnazione, prese gli appunti di Roby in mano tenendoli strettissimi ai lati, quasi a voler trasmettere loro la rabbia di averli di nuovo sotto gli occhi. “Solo con questa aggiunta, che non è affatto un’aggiunta, ma la sostanza stessa della lapide, si spiega la ragione dell’esistenza della Pietra di Bologna, pur non svelandone appieno l’enigma che aleggia nel suo contenuto.” Insomma la pietra di Bologna e i tre versi mancanti erano per Roby le due “parti“ di una stessa sciarada, che, unite, portavano alla scoperta dell’”intero”. Doveva considerare questa valutazione esatta o la presuntuosa sparata di uno sbarbatello? Doveva credergli, oppure ridimensionare l’ammirazione che si era via, via andata a consolidare in lui nei riguardi dello studente americano? Sergio ritenne che queste domande non meritavano risposte e abbandonò subito le alternative che si era posto, perché in effetti non c’era alcuna alternativa. Se voleva andare avanti nelle indagini, doveva necessariamente prendere atto della “sciarada Roby” e partire di lì, dalla terzina mancante che era l’unico elemento che gli permetteva di uscire dal pantano di enigmi in cui si era impelagato. Lesse cento volte quei tre versi, soppesando sempre parola per parola. Li lesse anche nella versione in latino, partendo dall’ultima parola e risalendo dall’indietro: SIBI - SEPULCHRUM - EST - CADAVER - SED - HABENS - NON - EXTRA… Ma non ne ricavò nulla, né ci aveva sperato. Provò anche a giocare sulle iniziali, H, E, S, I, C, N, A, H…, anagrammandole, ma non riuscì a ricavarne un qualche significato di senso compiuto (ma forse occorreva in questo caso un esperto in enigmistica). Capovolse le parole, CHO, TSE, MURHCLUPES… ma si accorse subito ch’era una vera e propria cretinata. Era tutto una “cretinata”! «Andate a fa’ in culo!» Disse imprecando a Roby e ad Aelia e accartocciando tutti i fogli su cui aveva scarabocchiato i tentativi di risoluzione “enigmistica” dello scritto! Guardò l’ora, erano le undici e trenta di sera e allora decise di uscire. Sarebbe andato in un pub di via del Pratello per verificare i giovani schiamazzanti, il frastuono di musiche per lui incomprensibile, la visione di belle ragazze succinte sempre attente e un qualche bicchiere di Vodka gli avrebbero fatto dimenticare quella puttana di “Aelia Laelia”.
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