Capitolo 8

Furto al Museo Medioevale

 


La torre Lambertini

Erano passati tre giorni dalla visita al Museo Civico e Sergio Silvani, come al solito, era in giro per Bologna. A mezza mattina, si fermò al Caffè Rosarose, sotto il portico del Pavaglione, un delizioso locale da dove si potevano ammirare da una parte piazza Maggiore e Palazzo Re Enzo e, dall’altro, l’affollato andirivieni della gente in cerca di shopping. C’erano anche le famose e famigerate “Gocce” che creavano un anacronistico contrasto con l’antica torre Lambertini.

Era l’ora di prendere un buon caffè, di fumare la seconda sigaretta della giornata e di leggere il Carlino. Lo acquistava sempre nell’edicola vicino a casa sua per tradizione e per fare quattro chiacchiere con il giornalaio, ripiegandoselo bene in tasca per avere il piacere di aprirlo nuovo di zecca, quando si sedeva al bar. Se poi il cielo era sereno (come quella mattina) e poteva sfogliare il giornale alla luce del sole, provava sempre un certo benessere, quasi una beatitudine. Il Carlino, ogni giorno, lo faceva sempre ritornare per un istante indietro nel tempo, quand’era ancora ragazzo e quel giornale se lo trovava in casa, non nuovo, però, ma già letto dal padre, poi dal nonno e, spesso dai fratelli maggiori. La mamma, casalinga, no! Se lo riservava per il pomeriggio, quando in casa non c’era più nessuno.


La prima testata del Carlino del 1885

A parte la tradizione, aveva sempre apprezzato il Carlino in ogni sua parte, perché, a suo parer, privilegiava la notizia e non l’approfondimento degli editorialisti, anche se in realtà, da diversi anni lo spazio loro destinato era notevolmente e autorevolmente aumentato. Si salvava ancora in un qual modo la cronaca di Bologna, che poi era quella che lo incuriosiva di più, perché la sua città era ormai il centro del suo interesse, non solo per i monumenti che fotografava, ma anche per le consuetudini che cambiavano, per i ricordi che si appannavano, e per le nuove realtà che si sovrapponevano sempre più prepotentemente alla tradizionale vita quotidiana. Comunque fosse, il giornale – come fanno in tantissimi - lo sfogliava sempre lentamente, pagina per pagina, dalla prima all’ultima, per gustarselo. Quel giorno, però, visto in prima pagina un titolo a tre colonne e con caratteri di forte richiamo, sussultò e si dimenticò di ogni altra notizia, per passare subito a quelle interne a cui il titolo rimandava per i servizi specifici.

BOLOGNA: CLAMOROSO FURTO AL MUSEO
Scomparsa Aelia Laelia, la lapide del mistero

Ben due le pagine interne dedicate all’accaduto: un articolo dell’inviato che chiariva come e quando il furto era stato commesso, un redazionale in cui si spiegava che cosa fosse la lapide e perché era tanto importante, ed una serie di interviste per approfondire il caso e per recepire le più svariate opinioni.

Questa la cronaca nella sua sostanza.


Estremi di Catalogazione di Aelia Laelia

La mattina precedente, si era presentata a Palazzo Fava Ghisilardi una squadra di quattro traslocatori specializzati, con un ordine scritto della Direzione del Museo di asportare il reperto detto “Aelia Laelia Crispis”, catalogato al n. 3361 dell’inventario generale ed esposta nella sala del Lapidario. Alla richiesta, gli addetti alla biglietteria avevano dichiarato di non saperne nulla, procedendo a telefonare al diretto superiore per avere conferme e ragguagli. Questi, il Dott. Ermanno Marescotti, sovrintendente ai beni culturali del Museo, era caduto dalle nuvole ed era subito sceso per verificare di persona. Controllato il mandato di trasporto, aveva in un primo momento scosso la testa:

«L’ordine c’è, senza dubbio, - disse rivolgendosi a quello che sembrava essere il caposquadra dei traslocatori – ed anche la firma del Direttore, ma mi sembra molto strano che non me ne abbia parlato… Sarà opportuno che ritorniate quando il Direttore è presente… al momento è all’estero per un congresso e non è raggiungibile.»

«Per me va bene, - aveva osservato il caposquadra – posso anche andarmene, però siamo qui in sei con muletto e materiale d’imballo già predisposto, fuori c’è il camion con autogrù che ci sta aspettando, munito di permesso comunale per l’accesso in città… Sono tutte spese che verranno addebitate dall’azienda al Museo… in pratica si raddoppia il costo del servizio, senza contare che non so quando e come la mia ditta sarà nuovamente disponibile.»

Il Sovrintendente aveva pregato di attendere un attimo e presa dal desk della reception la cornetta del citofono interno aveva contattato la sua Segretaria:

«Senti, Sofia, controllami nella raccolta corrispondenza il protocollo 00275, del 21 scorso…. Aspetto, aspetto, ma fai presto…. Trovato, sì?… Tutto a posto? Nessun allegato?… Un preventivo…. Cosa dice?…. Ah! Grazie, ci vediamo tra poco.»

Il Sovrintendente riattaccò e si soffermò un attimo a pensare, guardando il telefono che aveva in mano come se volesse trarre dall’oggetto un’ispirazione. Evidentemente la cifra del preventivo lo preoccupava. Fece un altro controllo telefonando all’Istituto di restauro a cui la lapide sarebbe stata portata, domandando se sapeva nulla del reperto n. 3361, poi, sentita la risposta evidentemente affermativa, si era rivolto nuovamente al caposquadra:

«Va bene, il restauratore è a conoscenza del trasferimento, proceda pure… Preparo una ricevuta di consegna…»

«Non importa – fu la risposta – ho qui la bolla di accompagnamento, con la copia per il Museo.»

E così “Aelia Laelia” venne smontata e portata via.

Nel primo pomeriggio il restauratore aveva telefonato al sovrintendente Marescotti per saper come mai il reperto non era ancora giunto in laboratorio e dopo un immediato controllo incrociato fra gli archivi, si era scoperto che il mandato protocollato al n. 00275/MCC era risultato falso ed inserito al posto di un’altra missiva. Richiamato il restauratore, Marescotti aveva appreso che il lavoro d’intervento sulla lapide gli era stato confermato dal Direttore del Museo, ma solo telefonicamente… Dopo numerosi, esagitati tentativi, il sovrintendente era riuscito finalmente a contattare all’estero il Direttore, il quale era caduto dalle nuvole: non aveva ordinato nessun restauro, non aveva scritto alcun mandato di ritiro della lapide, non aveva telefonato al laboratorio di restauro.

Nelle interviste che accompagnavano la cronaca dell’accaduto, Sofia, l’impiegata di quarto livello della Sezione Amministrativa del Museo, dichiarava che “né lei, né altri dell’Ufficio avevano scritto la lettera d’ordine di trasferimento della Lapide, né poteva sapere come mai la copia fosse regolarmente infilata nel protocollo progressivo dell’archivio; non ricordava nessuno che fosse entrato, lei presente, in amministrazione, procedendo all’inserimento; che aveva detto tutto ciò alla polizia e che null’altro aveva da dichiarare”.

Il Dott. Marescotti sottolineava che “l’ordine definitivo di trasferimento della lapide era avvenuto in piena regolarità dei documenti e se questi erano poi risultati falsi, allora lui non c’entrava; d’altra parte, se non avesse ottemperato al rilascio dell’autorizzazione definitiva dell’ordine scritto del suo superiore e se il restauro della lapide fosse stato da effettuare veramente, i danni economici per il museo sarebbero  stati notevolissimi e che, al riguardo, non poteva che sottolineare l’insufficienza delle risorse pubbliche per mantenere il Museo ai necessari livelli qualitativi”.

Il Direttore Generale del Museo, Dott. Adolfo Vannini, raggiunto telefonicamente a Los Angeles, dove si trovava per un Meeting internazionale sulle problematiche museali, “aveva rimandato ogni commento al suo immediato rientro a Bologna dove, appena verificati personalmente i fatti, avrebbe convocato una conferenza stampa”.

L’ultima intervista era al noto storico Adalberto Malvasia, titolare della cattedra di letteratura antica dell’università di Bologna, il quale descriveva “l’enorme importanza della lapide nell’ambito della cultura europea dei secoli scorsi, che l’aveva resa famosissima fra i letterati europei dal 1500 a tutto l’Ottocento”. A dimostrazione, riportava una citazione del 1700, per la quale “celebre ed insigne sarebbe stata Bologna, se altro ancora non avesse avuto e contenuto in se questa enigmatica lapide”. La perdita, pertanto, era enorme per la città e il suo museo, “anche se non poteva immaginare che finalità potesse avere quel furto, indubbiamente improduttivo per chi l’aveva compiuto. Solo un fanatico l’avrebbe potuto sottrarre, per tenersela per sé come reperto tangibile della sua intima passione.

Silvani si soffermò su quest’ultima affermazione dell’intervistato, ed in effetti era sensata e condivisibilissima. Quel professore, però, non aveva conosciuto Roby James e non sapeva della sua scomparsa, avvenuta fra una visita al Museo e il furto di Aelia Laelia. Uno scrittore di gialli in questo caso avrebbe scritto che alcuni tasselli del mistero si stavano mettendo apposto, ma in questo caso i “tasselli” sembravano ancora lontanissimi e non compatibili. Le due scomparse (la lapide e l’ ”americanino”) presupponevano un collegamento, ma quale esso fosse e per quale ragione ci fosse, costituiva un ulteriore mistero… “Aelia Laelia” stava colpendo ancora!

Suonò il telefonino, era Mara Lucchini che chiedeva a Sergio Silvani di vedersi.

«È per il furto al museo?» chiese.

«Sì, mi occorrono delle “dritte”. Tutti quei Soloni che capiscono di arte, storia e archeologia, mi stanno confondendo le idee con le loro evanescenti sentenze. E poi quelli non mi servono, non sanno nulla di Roby James e qui l’americano c’entra e come!»

«Credo anch’io! Dove ci vediamo, Mara?»

«Qui in Questura… chieda del mio ufficio, lascerò detto di accompagnarla da me.»

«Cinque minuti e sono lì.»

Sergio aveva assicurato la prontezza del suo spostamento, però volle comunque terminare la sigaretta che si fumava beatamente al tavolino del bar. Dovendo inforcare il motorino per andare in Questura, sarebbe passato molto tempo prima di potersene fumar un’altra. Ripiegato il “suo” Carlino e postolo nella tasca più larga del suo giubbotto da pescatore, inforcò il motorino, partendo così veloce da mettere in pericolo la vita di un passante che gl’imprecò contro.


Torre Lapi


Torre Agresti

Senza badare a sensi unici e a corsie preferenziali, giunse in un battibaleno in piazza Galilei, dove si ergeva l’imponente struttura fascista della Questura, di fronte alla quale sembravano scomparire le medievali architetture della Torre Agresti e di quella dei Lapi. Capovolgimenti della Storia, pensò, quello che è grande un tempo, diventa piccolo proprio col passar del tempo.

Entrò fra i portici squadrati di marmo grigio del Palazzo. Era un po’ spaesato in quel luogo sostanzialmente moderno e dovette fare una piccola trafila per richiedere le necessarie informazioni ad uomini in divisa. Furono, però molto più gentili che formali, forse per effetto di quel suo “sono atteso dall’ispettore Lucchini” che imponeva loro un atteggiamento più conforme al superiore che all’estraneo. Pochi minuti soltanto di spostamenti all’interno fra scale e corridoi e fu nella “stanza” dell’Ispettore Lucchini, accompagnato da un suo “sottoposto”.


Il Palazzo della Questura

«Buongiorno, Ispettore!» Le disse Sergio con un sorriso ed una affabilità che gli vennero fuori spontanei, ma a cui la donna non corrispose, con un altrettanto palese segno di simpatia. Sperò che quel suo mantenersi seria derivasse dal doveroso atteggiamento del funzionario pubblico attento al proprio grado e non ad una qualche personale ed improvvisa avversione nei suoi confronti.

«Grazie, Alvisi, può andare.» Ordinò Mara a chi aveva accompagnato il fotografo da lei. Così i due rimasero soli e sul viso di lei apparve almeno un breve sorriso.

«Buongiorno, Sergio, s’accomodi. Come avrà capito dalla mia telefonata, questa non è una convocazione ufficiale, lei è qui informalmente per darmi alcune delucidazioni. S’accomodi.»

Lui le sorrise di nuovo e si sedette, mentre Mara continuava a parlare.

«Se volevamo un’ulteriore dimostrazione che l’americanino e la lapide sono in stretto rapporto, oggi l’abbiamo. Le è venuto in mente in questi giorni quale potrebbe essere questo rapporto?»

«Ho appena letto del furto, e sto cercando di capirci qualcosa. Gli unici fatti certi sono che Roby era molto interessato alla lapide, e che questa è stata rubata dal museo un paio di settimane dopo che lui è andato a vederla e dopo essere scomparso. Forse ha fatto un sopralluogo per studiare un piano su come asportarla, ma io non credo che sia stato lui.»

Mara aprì un cassetto e prese un pacchetto di sigarette e ne offerse una a Sergio.

«Vuole fumare?»

«Qui?»

«Ogni tanto… Perché non crede che il furto sia opera di Roby James?»

Sergio fece una smorfia di sorpresa, prese la sigaretta, si alzò dalla sedia e allungando attraverso la scrivania la mano col suo accendino, accese quella di Mara, poi; fece altrettanto con la sua, rimettendosi comodo a sedere.

«Senta, Mara, vogliamo darci del tu, almeno quando siamo soli? Lei rimane Ispettore ed io persona “consapevole dei fatti”, ma almeno ci sarà più facile dialogare.»

«D’accordo – convenne lei alitando un bella boccata di fumo – mi sembra giusto. E poi stiamo fumando in un ufficio pubblico, siamo complici di un reato, sarebbe stupido darci del lei.»

Sergio espresse una strana felicità sul viso e si portò anche lui la sigaretta alla bocca. Le due volute di fumo si dispersero insieme in alto.

«Dunque, dov’eravamo rimasti?» Le domandò.

«Perché non credi che sia stato Roby James a commettere il furto della lapide?»

«Un piano come quello che il furto ha richiesto non può essere attuata da un fuggiasco ricercato dalla polizia. Troppe le persone che vi hanno partecipato, troppo studiato nei minimi particolari. E poi c’è un altro aspetto che mi convince dell’estraneità di Roby: lui è un solitario che non mantiene rapporti con altri, non sarebbe capace di complicità. Oddio, capisco che questo è solo un mio parere, una sensazione. Non posso dimostrarlo, ma ci giurerei che è così!»

Mara appoggiò i gomiti sulla scrivania, unendo le dita davanti al nasino e fissandolo, come se volesse meglio capire la sua asserzione. Anche così, col visino seminascosto dalle mani, la donna gli parve di una bellezza straordinaria.

«Se così fosse - gli disse – , dovrebbe esserci “a latere” un’organizzazione criminale che commette il furto senza che Roby ne sappia nulla. Ben strana coincidenza, davvero incredibile.»

«Ma possibile! Senti, Mara, chi è che ha denunciato la scomparsa dell’americanino?»

«Questo non posso dirtelo, mi dispiace… segreto istruttorio, ma posso assicurarti che il denunciante non ha alcun rilievo ai fini dell’indagine sulla sua scomparsa.»

«Se sei così sicura, non insisto, ma se fossi in te approfondirei le ragioni per le quale il “denunciante” è tanto interessato a Roby. Reputo che fra lui e Roby dovessero esserci stati dai contatti e che non appena questi sono saltati, il denunciante ha reputato che qualche cosa fosse capitato ed ha subito informato la polizia. Neanche la madre di Roby l’avrebbe fatto con tanta immediatezza.»

Quel “denunciante” di cui non si poteva conoscere l’identità, sembrava a Sergio un aspetto estremamente importante ai fini dell’indagine, ma la categoricità con cui Mara gli aveva negato ogni ulteriore informazione a riguardo, lo fece soprassedere dall’insistere su questi argomenti. Ritornò, quindi, al collegamento Roby James – Aelia Laelia e questa volta fu lui ad appoggiarsi alla scrivania con le mani congiunte sul viso, esternandole una delle domande che si ero posta non appena venuto a conoscenza della scomparsa di Roby:

«Sei sicura, Mara, che Roby non se ne sia andato altrove, che so io, a fare un giro turistico per l’Italia? Gli stranieri lo fanno volentieri: Roma, Firenze, Venezia?»

«Negativo. Quando abbiamo perquisito il suo domicilio, sembrava che fosse ancora abitato. Vestiti, borse, scarpe, roba da toilette, erano tutti lì, in un disordine tremendo, ma c’erano tutti. E poi, la porta non era neppure chiusa a chiave. No, Roby non se n’è andato via tranquillamente, per una vacanza o un viaggio.»

«Agende, telefonini, computer?»

«Solo un note book. Al suo interno numerosi documenti scritti, quasi delle annotazioni, riferite a Bologna e ad alcuni suoi monumenti e personaggi, per lo più del ‘500. L’unica cosa davvero interessante erano una quindicina di pagine su Aelia Laelia. In definitiva, il computer ha confermato quello che ci avevi detto tu, quando ci siamo visti la prima volta: Roby stava scrivendo una tesi ed era molto interessato alla lapide.»

Sergio assentì sentendosi avvalorare dalle indagini, non solo quello che Roby gli aveva detto, ma anche le intuizioni che aveva avuto su di lui.

«Sì, Mara, se Roby studiava il Cinquecento bolognese, è ovvio che la lapide rientrasse appieno fra le sue ricerche.»

«Negativo! A quanto dettomi, la lapide non è del Cinquecento, ma del Seicento.»

«Esatto, ma quella originale risale almeno ai primi decenni del ‘500. Fu copiata e riscolpita il secolo successivo, forse perchè troppo deteriorata o non più esistente. Se il manufatto non ha nulla a che vedere con gli studi di Roby, il suo contenuto certamente sì. Se questo rapporto esiste, occorre vedere il perché la scomparsa di Roby è coincisa con quella della lapide. E qui credo che l’unico che ci risolverà il problema sia proprio Roby.»

«Vuoi dire che, se troviamo Roby, troviamo anche la lapide?»

«Non è così sicuro, ma almeno potremo sapere le ragioni per cui è stata rubata. Di certo c’è che se troviamo la lapide, non è detto che troviamo l’americano. La priorità è Roby e non Aelia Laelia.»

«Sempre che il presupposto sia giusto! D’altra parte sono dieci giorni che indaghiamo e di lui non c’è alcuna traccia concreta.»

I due si guardarono, consapevoli che fra loro l’approfondimento della vicenda era concluso, almeno al momento, e che quindi si dovevano lasciare. Sergio si alzò con un “ciao, Mara, alla prossima” che la donna contraccambiò, più con simpatia che con gratitudine. Lui uscì, ma sulla porta si fermò e si rivolse a lei:

«Posso avere una copia di quello che Roby ha scritto su Aelia Laelia?»

«Dovrebbe essere un segreto d’ufficio, ma vista la tua collaborazione, non vedo ragione per non dartela.»

Mara scartabellò fra le scartoffie che aveva sulla scrivania, estrasse una serie di fogli puntati e alzandosi glieli portò sulla porta.

«Guarda, Sergio, che non è il testo originale in inglese, come l’aveva scritto Roby, ma la sua traduzione in italiano, quella che mi sono fatta fare per poterlo leggere meglio anch’io.»

«Hai fatto bene, grazie. O italiano o bolognese, altre lingue non le conosco!»

I due rinnovarono i saluti, garantirono reciprocamente di essere a disposizione l’uno dell’altra per ogni eventualità nel corso delle indagini e si lasciarono.

Mentre procedeva nel corridoio per raggiungere le scale da dove era venuto, Sergio batteva i fogli arrotolati sulla mano, come a voler ritmare la inspiegabile sensazione di piacere che provava.

 

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