Capitolo 6

Alla ricerca di un americano che ama bologna

 

Erano passate alcune settimane dalle foto scattate all’Archiginnasio e, ogni tanto, Sergio Silvani ripensava all’americano ed aspettava un suo contatto, se non di persona, almeno con una telefonata o con una e-mail. Se anche, però, si fosse dimenticato di Roby, ci pensava Marco Balduzzi a ricordarglielo, perché l’editore non mancava mai di telefonare quasi ogni giorno per rammentare la promessa di farglielo conoscere. Sergio aveva un bel da dirgli che l’americano non l’aveva più visto né sentito, l’editore non ci credeva e sbraitava dicendo che se n’era dimenticato, oppure che glielo stava tenendo nascosto (chissà poi per quale ragione!), o che si stava vendicando perché voleva più soldi per le foto e concludeva sempre minacciandolo di non farlo più lavorare per lui.

 
Il campanile di san Pietro e la sezione disegnata dall’arch.
G. Rivani per evidenziare l’antico campanile interno

Ma Marco era fatto così e in fondo, non lo disturbava più di tanto, anche perché, fra una telefonata e l’altra, dopo essersi sfogato, gli indicava qualche soggetto da andare a fotografare, il che non poteva che soddisfarlo. La mattina era andato in San Pietro per cercare di fotografarne il trecentesco campanile, che all’interno, aveva ancora integro, seppure non visibile dall’esterno, quello originario di due secoli prima.

Erano circa le sei e stava come sempre catalogando le foto della mattina nel data-base del suo computer, quando suonarono alla porta. Ne fu sorpreso perché a quell’ora, fra le sue quattro mura, diventava per natura un orso solitario e non riceveva mai visite. Guardò dallo spioncino e vide due persone, un uomo ed una donna che non conosceva. Sembrava gente per bene e aprì la porta chiedendo chi mai fossero.

«Buongiorno –disse la donna – lei è il signor Sergio Silvani?»

«Sì, proprio io! E voi?»

«Sono l’Ispettore Mara Lucchini, della Questura di Bologna e questo è il mio vice Ugo Franchi.»

Mostrarono le loro tessere di riconoscimento e Silvani, accennando ad un breve, sorpreso saluto, li fece accomodare nel suo ampio studio - soggiorno: era una specie di polveroso magazzino, poco pulito e non riordinato da mesi, dove la baraonda degli incartamenti impediva a chiunque, all’infuori di lui, non tanto di orientarsi, quanto di trovare un pur minimo spazio per starci e, men che meno, sedersi. Cercò, quindi, di liberare, non senza fatica, almeno parte del divano sdrucito che stava sotto la libreria, togliendovi libri, foto, fogli e giornali, che ammassò alla bella e meglio su altri libri, foto, fogli e giornali già ammucchiati sul piano dell’angolo cottura, fra due piatti sporchi ed una pentola affumicata. Allargò le braccia come per scusarsi ed invitò i due poliziotti a sedere sull’angusta parte libera così realizzata sul divano, prendendo per se, girandola, l’unica sedia libera a portata di mano, quella a rotelle, perennemente posizionata davanti al computer.

«Non nascondo – disse loro, sedendosi – che questa visita mi sorprende, né riesco a immaginarne la ragione. Cos’ho combinato?»

«Quando ci presentiamo – lo rassicurò il Commissario Mara Lucchini - questa è la domanda di rito con cui siamo accolti.»

Era una bella donna sulla quarantina che Silvani avrebbe voluto vedere vestita in modo meno professionale e con un bel “prêt a portér” più vivace e meno avvolgente del grigio tailleur che indossava. Notò il bell’ovale del viso divinamente sottolineato da un caschetto di capelli neri; gli occhialini senza montatura erano l’unico vezzo un po’ diverso dalla sobrietà di ogni altro accessorio, ma evidenziavano due occhi limpidi di un verde scuro quale mai aveva notato in nessun’altra donna. Nessun trucco. Non potè fare a meno di domandarsi se la mancanza di un po’ di rossetto o di mascara fosse una disposizione del corpo di polizia, oppure una scelta personale della donna, consapevole di non averne assolutamente bisogno.

Il sorriso di Sergio, forse un po’ galante, ma poi non troppo, fu contraccambiato, il che gli addolcì un po’ la preoccupazione per quella visita.

«La cosa è piuttosto seria – disse invece gravemente Ugo Franchi, l’altro poliziotto – e vorremmo da lei alcune risposte precise.»

Se Sergio l’avesse incontrato per strada senza alcuna presentazione, avrebbe subito immaginato che era un poliziotto, perlomeno come tipologia di personaggio: viso squadrato, capelli biondicci rasati a spazzola e molto sfumati alla nuca e sulle orecchie, naso ben accentuato, portamento militaresco e deciso.

Contrariamente a quanto forse pensava il poliziotto, il suo tono di voce molto formale e sostanzialmente rigido non fece affatto impressione a Silvani, anzi gli fece accentuare il sorriso che aveva rivolto alla ”Commissaria”. E Franchi ne rimase sorpreso: era abituato ad incutere negli interlocutori una reazione se non di paura, quanto meno di apprensione, non certo una reazione sorridente. Il suo atteggiamento sembrò farsi ancora più serio e ostile.

«Mi scusi, – lo rassicurò Silvani cessando subito di sorridere – ma, vede, mi piacciono molto i film gialli e quando c’è un interrogatorio, i poliziotti sono sempre in due, uno in genere accomodante e con fare amichevole – e accennò  alla donna - ed uno intransigente e rigoroso.»

Anche Franchi allentò la sua inflessibilità e finalmente sorrise:

«Ha ragione – disse - e non le nascondo che le intenzioni di fare con lei “il buono e il cattivo” c’era. Deformità professionale. Le confermo, però, che si tratta di una cosa seria.»

Questo volta fu Sergio a mostrare una certa preoccupazione, anche se aveva la coscienza del tutto tranquilla. L’unica cosa che gli venne in mente, al momento, per giustificare la presenza di poliziotti a casa sua, erano le poche lire in nero che riceveva da Balduzzi, ma quei due erano della Polizia e non della Finanza e, comunque, la Finanza lo avrebbe convocato in ufficio e non gli avrebbe certamente fatto una visita così formale.

«In cosa posso esservi utile, allora?» Riuscì a dire in modo falsamente disinvolto.

«Siamo qui solo per avere alcune informazioni. Nulla di ufficiale» Rassicurò la donna.

«Nulla di ufficiale – confermò Franchi - Lei conosce questa persona?»

Gli allungò una foto che Silvani prese in mano e guardò attentamente. Era senza dubbio Roby, anche se l’immagine era un po’ sbiadita e lo ritraeva da lontano, forse diversi anni prima di quando lo aveva conosciuto.

«Sì. - confermò ai due poliziotti - Si chiama Roby James e l’ho conosciuto una ventina di giorni fa. Un momento, potrei esservi più preciso…»

Prese la sua agenda e, sfogliandola, precisò:

«Esattamente il 3 maggio.»

«E’ stato tanto importante quell’appuntamento da appuntarselo nella sua agenda?» Gli chiese Franchi.

«Non ho registrato affatto un appuntamento con lui, ma quello che dovevo fare quel giorno. Dovevo andare all’Archiginnasio a fare alcune foto.»

Così dicendo mostrò loro la pagina dell’agenda, aggiungendo:

«Vede, qui è scritto “Don Didaco de Leon Garavito”.»

«Vedo. E cosa significa Don Didaco de Leon Garavito?» replicò Franchi, guardandolo fisso negli occhi.

Silvani gli chiarì allora chi era Don Didaco e gli raccontò dello stemma che non trovava, dell’incontro-scontro avuto con Roby, della passeggiata dall’Archiginnasio a San Procolo e ritorno. Poi concluse:

«Da quel momento non l’ho più visto n’è sentito.»

Franchi guardò la Lucchini come per invitarla ad intervenire ed essa lo fece con molta gentilezza:

«Capisco Signor Silvani. Fu quindi un incontro del tutto casuale… Che impressione le ha fatto questo Roby James, prima, durante e dopo questo incontro?»

«Nessuna impressione particolare. Era un giovanotto come se ne vedono tanti in giro, uno studente che guardava ammirato l’Archiginnasio e le altre bellezze della nostra città. Se c’è stata un “stranezza”… ma la parola è molto forte… è che sapesse troppe cose su Bologna. Non c’è stato argomento affrontato, di storia, arte, cultura, che lui non conoscesse a fondo. Mi parve molto curioso che un americano di trent’anni… »

«Come fa a saper la sua età?» Lo interruppe Franchi.

«Non la so, l’ho solo immaginata… potevo dire trentuno, ventisei, trentaquattro…»

«Vada avanti, signor Silvani. » Lo invitò la Lucchini, quasi dicesse al collega di non interrompere.

«Dicevo?… Ah!… L’unica cosa che mi sorprese di quello studentello è che ne sapesse tanto sulla mia città. Non era possibile che si fosse formato solo sui libri trovati all’università di Nashville o anche su internet. Ecco, a mio parere la sua conoscenza di Bologna aveva un’origine più radicata, quasi congenita… In altre parole, ho avuto la sensazione che un patrimonio di conoscenze come lui mi ha mostrato, era possibile solo per un Bolognese e, oltretutto, fanatico di Bologna … Uno come me, tanto per intenderci.»

«Interessante, – disse la Commissaria – ma a parte questa sua sensazione, non c’è stato altro, Signor Silvani, che le ha suscitato qualche perplessità?»

Silvani chiusi gli occhi e ripensò attentamente alle due ore che avevo trascorso con Roby, mentre i poliziotti lo stavano osservando in gran silenzio.

«Per la verità una cosa c’è stata. Non aveva cellulare, o almeno non lo usò mai e quando gli chiesi un suo recapito per poterlo contattare, ho avuto l’impressione che me lo negasse. So che non vuol dire niente, ma mi parve strano che essendo per la prima volta a Bologna da un paio di settimane, così mi disse, non avesse un posto certo dove stare. Si sarebbe fatto vivo lui, mi disse ancora, e ci salutammo.»

«Aveva un atteggiamento misterioso, come se volesse nascondersi o nascondere qualche cosa?»

«Non m’è sembrato, anzi… assolutamente no.»

I due poliziotti si guardarono e si alzarono: «La ringraziamo – disse “la Commissaria ” – sia per la cortesia usataci, sia per le esaurienti risposte. Ci è stato molto utile.»

«Mi scusino – li fermò Sergio - mi farebbero rivedere quella foto?»

La Lucchini gliela porse, notando che il viso di Sergio si era improvvisamente rabbuiato. Guardava la foto con molta concentrazione come se la stesse fotografando con la mente. Poi imprecò:

«Maledizione, mi era sfuggito questo particolare. Roby mi ha mentito! Non è affatto la prima volta che viene a Bologna. Questa foto è stata scattata al Museo Archeologico, riconosco il cortile.»

«Per lei, Signor Silvani, questo fatto ha un significato particolare?»


Il Cortile del Museo archeologico

«No, se non la bugia che mi ha detto. Avrà avuto le sue buone ragioni per non dirmi che era già stato a Bologna, ma io non le conosco.»

Sergio li accompagnò alla porta, ma ancora un volta proprio mentre i due poliziotti stavano per uscire, li fermò.

«Scusate – disse loro – Posso farvi una domanda io? Cosa ha fatto Roby James per aver suscitato il vostro interesse?»

Lucchini e Franchi si guardarono, come se si stessero silenziosamente consultando.

«A quanto ci risulta non ha fatto nulla –disse poi la donna – abbiamo ricevuto una denuncia di scomparsa e ne stiamo semplicemente verificando l’attendibilità.»

«E come mai siete venuti da me per avere informazioni?»

«Abbiamo trovato nell’appartamento che occupava il suo biglietto da visita, signor Silvani. Anche la foto che le abbiamo mostrato era lì.» Gli chiarì Franchi con un’espressione che lasciava sottintendere l’ovvietà della sua risposta.

«Allora aveva un casa!– esclamò Silvani quasi volesse confermare a se stesso l’impressione che aveva avuto sulla reticenza di Roby – Anche questa è una bugia! Non capisco perché non me ne abbia dato l’indirizzo… mi aveva chiesto una foto dello stemma di Don Didaco.»

«Sarà stato per riservatezza! –disse la donna, poi proseguì – comunque, signor Silvano, se le venisse in mente qualche cosa che potesse risultare utile alle nostre ricerche, mi telefoni, questo è il mio biglietto, all’occorrenza.»

I due lo salutarono nuovamente e si allontanarono chiamando l’ascensore e mentre ne aprivano la porta, Sergio ricordò un altro fatto che gli sembrò utile far conoscere ai due:

«Forse una cosa c’è che potrebbe essere interessante: – i poliziotti si volsero ancora verso di lui con grande attenzione – Roby mi disse che gli interessava moltissimo una antica e misteriosa lapide dedicata ad una certa “Aelia Laelia”. Si trova al Museo Civico medioevale, in via Manzoni.»

«Grazie, può essere una traccia importante.» lo gratificò la Lucchini entrando nell’ascensore.

Anche Franchi ringraziò e salutò, ma il tono della voce e l’occhiata che gli diede, sembrò sottintendere un “Lei sa molto di più di quanto ci ha detto…”

Silvani contraccambiò con un semplice:

«Se mi viene in mente qualcos’altro ve lo farò sapere.»

L’interesse per rivedere Roby crebbe in lui a dismisura.

 

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