Capitolo 5

Un editore che pubblica libri su Bologna

 

La sede della Casa Editrice Balduzzi S.r.l. era posta in un edificio di periferia, un cubo anonimo dove l’intonaco giallo sbiadito era ormai ovunque chiazzato dal cemento sottostante che lentamente stava trasformando ogni parete in un grigio disuniforme e sgraziato. Completamente diverso l’interno, molto decoroso ed ospitale con un’ampia scala di marmo, un po’ fredda, ma ingentilita da numerosi vasi di piante verdeggianti e rigogliose poste un po’ dovunque. Una mania di Marco Balduzzi, quella delle piante, che curava personalmente; forse l’unico suo hobby per il quale spendesse qualcosa in più del dovuto.

La bionda segretaria (chissà se anche lei, come le piante, era un hobby che l’editore coltivava regolarmente?) guardò Sergio Silvani entrare nel suo ufficio dalla porta a vetri su cui era stampigliata la parola “Direzione”. Lo guardò con un’occhiata stanca e un sorriso sbiadito, continuando silenziosa a limarsi le lunghe unghie smaltate di verde, intonate – così notò Silvani - alle piante presso cui era seduta. Gli indicò con un cenno del capo la porta dell’ufficio del principale, come a dire che poteva tranquillamente entrare dal “boss dei boss”.

«Grazie Margherita – tutto bene?» Gli chiese quasi volesse interrompere il silenzio anomalo dell’ufficio.

«Cosa vuoi… Marco è sempre incazzato e oggi più che mai. Ha firmato gli assegni di pagamento delle fatture.»

Silvani aprì le braccia come a dire che lui non poteva farci niente e si avviò verso l’ufficio personale dell’editore, aprendo la porta senza bussare, come aveva già fatto decine di volte.

Il locale era ampio con tutti mobili in palissandro di linea svedese anni cinquanta, ad esclusione di una libreria nera che faceva bella mostra di se, isolata nella parete di sinistra e ben illuminata dalla grande porta finestra che la fronteggiava: era un mobile notarile in autentico ottocento bolognese, con le quattro lunghe ante losangate da vetri bianchi e gialli saldati dal piombo, le greche alla sommità e sullo zoccolo inferiore sostenuto da grandi piedi a zampa di leone. Quel mobile avrebbe potuto stonare fra gli altri arredi così spogli e squadrati, e invece no, dava un tocco importante all’ufficio e ne ravvivava alquanto lo scarno arredamento. Alle pareti erano esposte le copertine dei libri e delle pubblicazioni edite da Balduzzi su Bologna, una trentina circa, coloratissime e inserite in cornici non brutte, ma certamente da pochi soldi, comprate in chissà quale supermercato o mercatino rionale, ma sempre previa regolare fattura intestata alla casa editrice.

L’ampia porta finestra permetteva l’accesso e la vista di un balcone colmo di piante e fiori, una specie di jungla casalinga in cui Balduzzi –almeno così s’immaginava Silvani – entrava ogni mattina con forbicine e anticrittogamici per compiere il suo rituale da “pollice verde”. Ogni volta che vedeva quel balcone Sergio pensava al Giardino della Lazzarina, un terrazzo sempre pieno di fiori che si affacciava nel lato Est di Palazzo Re Enzo. Come quello di Balduzzi anche questo era sempre pieno di fiori e si diceva, che la Lazzarina – la moglie del boia di Bologna – ne aggiungesse uno tutte le volte che il marito aveva compiuto il suo quasi giornaliero compito istituzionale. A quel tempo i giustiziati erano poveracci considerati delinquenti comuni magari perchè aveva rubato un paio di mele al mercato, ora invece erano gli autori e i fotografi che lavoravano per l’editore.

«Allora, Sergio, –domandò Balduzzi senza salutarlo né tanto meno alzarsi dalla sua sontuosa poltrona in pelle – trovato il misterioso spagnolo dell’Archiginnasio?»

«Trovato, trovato…» Lo rassicurò Silvani sedendosi e porgendogli il dischetto.

«Visto? Tante storie per niente! Lo stemma c’era e tu l’hai trovato… Ne ero certo!»

«Non è stato però facile fra i seimila che ci sono…»

«Non farmi adesso la solita lamentela per avere di più per le foto!»

Fu a quel punto che suonò il citofono interno a cui Marco rispose con un “” che sottolineava l’immane seccatura di rispondere. Era Margherita che annunciava la visita del Professor Antioco Belforte.

«Fallo entrare – rispose l’editore – così conosce l’autore delle sue foto.»

Se qualcuno avesse visto Antioco Belforte senza conoscerlo, avrebbe subito detto ch’era un vecchio professore o, meglio, un professore vecchio: sessant’anni circa ma portati sostanzialmente male, indice di assoluta assenza di attività fisica, almeno da decenni; capelli abbondantissimi, grigiastri a cui un rapido e confuso colpo mattiniero di pettine non aveva certo dato la piega giusta; occhi solo apparentemente spenti, ma sprizzanti talvolta d’improvvisi lampi di viva attenzione; labbra sempre serrate, senza curve di sorriso o di malumore e, se del caso, appena accennati, come nascosti dalla inutilità di esprimerli; vestito classico gessato ben stirato con una cravatta un po’ vistosa, ma intonata; camicia, al contrario spiegazzata e con le punte del colletto sfilacciate.

Sergio fu presentato al professore Belforte che gli porse la mano come fosse un feudatario in attesa del bacio all’anello di un suo suddito. Nessuna espressione sul suo viso, né prima, né durante, né dopo che Sergio gli aveva stretto la mano, atto che il professore sembrò non avesse gradito per nulla.

«Ah! È lei il fotografo? Bene, bene. Si può vedere la sua opera?»

«Stavamo proprio adesso guardandola – gli disse Balduzzi - capita a puntino, professore. S’accomodi qui.»

Si riaccomodò su di una sedia quasi di fronte al monitor del computer come fosse un trono e non proferì più parola.

«Lo sa professore che Sergio ha fatto tutte le foto di Bologna che appaiano sulle mie più recenti pubblicazioni. Belle, vero?»

«E come posso saperlo? Lei è un editore, ma io non sono mica obbligato a leggere quello che pubblica.» Rispose gelido Belforte.

Balduzzi, allora, si dimenticò del professore e cominciò a comportarsi come se non ci fosse.

«Dicevamo?… Ah, sì!… Che hai trovato alcune difficoltà per individuare lo stemma di Don Didaco, vero?»

«Sì, all’inizio, ma poi ho conosciuto uno studente americano che sapeva perfettamente dove e cosa fosse. Se non c’era lui, questo foto non le avresti qui.»

Balduzzi, che stava già inserendo il dischetto nel suo PC, si fermò un istante e guardò l’amico senza nascondere la sua sorpresa ammantata d’interesse:

«Come, come? Fammi capire… Un americano che conosce gli stemmi dell’ar-chiginnasio, e che individua quello che tu non sapevi neanche che esistesse?»

«Proprio così! Ma se è per questo non conosce solo quelli, ma sembra saper tutto della storia e dell’arte della nostra città… Un tipo molto insolito!»

L’editore fece girare la sua poltrona da “boss di periferia” ed inserì nel modernissimo Computer il disco facendo scorrere le immagini ad una ad una, lentamente, quasi ne volesse più indagare il contenuto, che verificarne l’idoneità alla stampa. Quando apparve sullo schermo la prima foto dello stemma si congratulò:

«Non male, vero Professore?»

«No, malissimo! Non si capisce quasi nulla!»

«Non è colpa mia – s’intromise Sergio – lo stemma è ridotto come mostra la foto. L’americano mi ha detto che ce n’era uno più bello e dettagliato, ma era in una sala interna non accessibile.»

«Come si chiama pure quel tipo?» Domandò Balduzzi.

«Don Didaco de Leon Garavito…» Gli rispose Belforte come a dire “Che ignorante che sei!” »

«No, non dicevo a Lei professore e non mi riferivo allo stemma. Volevo sapere da Silvani come si chiama quell’americano.»

«Roby James.» Rispose Sergio.

«Questa è buona – disse Balduzzi soffermandosi su di una foto che riproduceva uno scorcio dell’Archiginnasio - Posso vederlo?»

«Cosa, l’Archiginnasio?» Domandò interdetto Belforte, mentre guardava l’immagine a monitor.

«Ma no… Roby James.»

«Ah, l’americanino! – intervenne Sergio - Non vi dovrebbero essere problemi.»

«Allora chiamalo e fallo venire qui.»

«Per la verità, non so dove trovarlo… Quando ci siamo lasciati mi ha detto che non aveva ancora un posto fisso dove stare e che si sarebbe fatto vivo lui… Gli ho lasciato il mio biglietto da visita.»

Intanto le foto scorrevano sul monitor ed erano guardate con un certo interesse da Belforte.

«Non ti ha dato nemmeno il numero di cellulare?»

«No, credo che non l’avesse neppure; siamo stati insieme circa due ore e non gliel’ho mai visto… nessuna telefonata ricevuta o fatta, nessun messaggino… Adesso che ci penso, è strano che un giovane come lui, lontano mille miglia da casa, in un paese straniero, non abbia il telefonino sempre a portata di mano.»

«Strano, perché non ha il cellulare? – esclamò Balduzzi continuando a far scorrere le foto, ma quasi senza guardarle. – A me sembra molto più strano che questo giovanotto americano conosca Bologna meglio di te. Il fatto poi che non abbia cellulare dimostra una certa intelligenza… È senza dubbio un tipo simpatico.»

«Sarà – Constatò Sergio non senza un ironico sorriso - Se Roby mi cerca, faccio in modo che tu lo possa conoscere. Sai, Marco, il ragazzo deve fare una tesi sulla cultura Bolognese del ‘500 e tu potresti essergli utile, visto quello che pubblichi come editore e le conoscenze che hai fra gli esperti della nostra città. Non è vero Professore?»

«Potrebbe essere, se l’elemento è così preparato e pieno di buona volontà.»

Il tono era proprio da Professore.

Balduzzi torno sulle foto dello stemma di Don Didaco.

«Così questo è lo stemma dello spagnolo?» Domandò ad entrambi i suoi interlocutori.

«Non è uno spagnolo– dissentì con energia Belforte – è un peruviano!»

«E’ vero! – Confermò Sergio - Me lo ha detto anche Roby.»

Belforte lo guardò in malo modo:

«Non ho certo bisogno della conferma di uno studentello!»

«Sì, lo stemma non è un gran che. - Interruppe Balduzzi - ma la foto è buona, buonissima! Lei che ne dice, professore?»

«Sì, può andare…» Fu la risposta del professore che sottintendeva: “per gentile concessione di sua maestà”.

Antioco Belforte si alzò:

«Adesso devo proprio andare. Signor Balduzzi la prego di farmi pervenire le foto al mio studio, così da poterle esaminare con più tranquillità. Per intanto la saluto e saluto anche lei, signor fotografo e complimenti.»

Non c’era nessuna ironia nel tono. Il professore aveva semplicemente scordato il nome di Sergio e aveva riparato così alla sua dimenticanza.

Qualche convenevole, poi uscì a testa alta ed impettito. Aveva ricevuto l’atto di ossequio dovutogli dai servi della gleba, e aveva compiuto uno sforzo immane per complimentarsi con loro. Nulla più era dovuto da parte sua.

«Torniamo a noi – disse balduzzi a Sergio – e all’americano… L’hai più rivisto?»

«Chi, Roby James? No, né visto né sentito.»

«Davvero? Non è che me lo tieni nascosto tu, per non darmi la soddisfazione d’incontrarlo o per avere dei soldi in cambio?»

Sergio a questo punto s’irritò davvero:

«Insomma, Marco, sono stanco di sopportarti. Ora ti arrangi da solo: fatti le foto tu, cerca tu l’americano, pagati quello che vuoi e lasciami in pace. Non telefonarmi più!»

«Eh, adesso non si può neppure scherzare... – rispose anche lui irritato, ma certamente con una vena di derisione, come se sapesse che da lì a poco all’amico gli sarebbe passata - Dov’è l’ironia che avevi a scuola e in palestra? Andiamo, se vuoi le mie scuse, mi scuso! Va bene così?»

Sergio uscì sbattendo la porta, mentre Balduzzi gli urlava dietro:

«Domani ti mando l’assegno con una gratifica in più. Piccola, ma gratificante…»

  
Facciata e cortile del Collegio Il lirico Ungarico

Sergio se ne andò irritato dalla “Casa Editrice Marco Balduzzi”, senza neppure salutare Margherita, che per altro, stava ancor curandosi le unghie e non lo guardò neppure. Salì sul sua sconquassato motorino e raggiunse la sua casa di via Centotrecento, un piccolo appartamento da cui vedeva la scialba immagine dell’antico Collegio Ungarico Illirico.

Appena giunto, si era premurato di verificare le tante asserzioni storiche e culturali che Roby James aveva espresse su Bologna, ed esse risultarono tutte confermate, anzi, i libri consultati gli erano sembrati meno documentati. Era per questo che il rivederlo, più che una speranza, era una forma di impazienza, desideroso com’era di fare ancora con lui quattro chiacchiere e di competere con lui sulla conoscenza di Bologna.

 

Torna all’ Indice

Vai al Capitolo 6