Capitolo 4 |
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Davanti a San Proclo
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La richiesta di Roby James venne esaudita da Silvani non senza una certa perplessità: era una Nokia digitale ultimo modello e mentre camminavano affiancati, Roby cominciò ad osservarla attentamente, girandola per guardare l’obiettivo, il menù, le altre funzioni e fingendo di fotografare. Poi la restituì. «Molto bella e funzionale.» - disse Roby, poi aggiunse: «Non dovrei chiederlo io, ma non sono molto abituato a dare del lei… Che ne direbbe se…» «D’accordo, non c’è assolutamente problema. Diamoci del tu, se va bene a te, Roby, figurati a me.»
Dopo pochi minuti i due giunsero davanti alla chiesa di San Procolo e si sedettero sui pesanti paracarri che ne delimitano il sagrato. Davanti a loro, su un muro di mattoni che proseguiva a sinistra il piano della facciata, era inserita a pochi metri d’altezza, la lapide di Procolo. Il manufatto era quasi quadrato, di una sessantina di centimetri per lato e con le lettere romane che il tempo aveva molto diluite in gran parte del nero che anticamente le riempiva per meglio evidenziarle. Non c’erano stemmi, fregi o ornati. In definitiva si trattava di una misera lapide come se ne vedono tante nei cimiteri a ricordo di defunti morti in povertà. L’americano la lesse ad alta voce: «SI PROCUL A PROCULO Poi, accarezzandosi il mento e continuando a fissare la lapide, aggiunse: «Vediamo di tradurre… “Se Procolo fosse stata lontano dalla campana di Procolo, ora Procolo stesso sarebbe lontano da Procolo – Nell’anno del Signore 1393”. » Anche Sergio sembrava che stesse leggendo e traducendo quella lapide, ma in realtà aveva gli occhi fissi a terra, e stava facendo il coro all’americano, recitando a memoria e a bassa voce, come se si trattasse di una cantilena insegnatagli dal nonno, quand’era bambino. «Un documento certamente curioso – osservò l’americano - ed uno scioglilingua notevole, ma devo dire che non è l’unico che si conosca in latina, basta pensare al semplice “Cave Canem” ma anche ai più complessi: “Paulus Paulam amat, sed Paula alium amat”, “Bonum nomen, bonum omen”, “Bene memini pantomimi minimi et amantium mimi ”.» Solo quando Roby ebbe finito la sua disquisizione, anche Silvani guardò la lapide e disse la sua. «Tutto bene, tutto esatto, lettura e traduzione! In pratica, la lapide ricorda un certo signor Procolo che se fosse stato lontano dalla campana della chiesa di san Procolo, ora non sarebbe morto e, quindi, sarebbe anche lontano da San Procolo, questa volta, però, inteso o come anima del santo o come cimitero della chiesa. D’accordo, non sarà l’unica frase latina curiosa, ma mi sembra ben più bella, di quelle che hai citato, tanto più che sta incisa su pietra da ben settecento anni!» «Questo non significa nulla. – obiettò Roby - Anche “Cave Canem” è scritta su pietra ed è di mille anni più vecchia! E, poi, e mi dispiace darti un’ulteriore delusione, io dubito che la lapide dedicata a questo Procolo abbia sette secoli, anzi non li ha certamente e lo dimostra anche il marmo che, pur se screpolato, a mio parere non lo è tanto da far pensare a settecento anni di esposizione all’aperto.» La perizia fatta da Roby sorprese alquanto il suo interlocutore che si complimentò con lui: «Però, te ne intendi di antiquariato lapideo!» «Un po’!» «Forse hai ragione, non è del 1393, e sembra proprio trattarsi di una copia cinquecentesca, ma nessuno disconosce che sia la copia esatta di una risalente a quell’anno.» «Questo è senza dubbio possibile.» Roby sembrò voler concludere la breve conversazione alzandosi dal paracarro su cui era seduto, ma subito aggiunse: «Ti dirò di più, a mio parere e semprecchè il testo originario sia del ‘300, chi l’ha scritto, oltre ad essere un tipo molto spiritoso, era anche un ottimo letterato, se è riuscito a sfruttare e concentrare in pochi versi a senso compiuto i tanti significati possibile del termine latino “procul”.» Sergio, alzandosi anche lui dal paracarro e avvicinandosi a Roby intenzionato a ritornare all’Archiginnasio, disse all’apparenza sconsolato: «M’avevi chiesto di conoscere una misteriosa lapide ed io ti ho portato qui. Se non c’è nulla di misterioso, mi dispiace di averti fatto perdere tempo.» «Conoscere le cose non è mai un perditempo. Solo che la lapide misteriosa a cui io mi riferivo non è questa, ma un’altra, molto più complessa ed articolata, un’epigrafe citata da tutti i testi internazionali che parlano di enigmi esoterici e conosciuta nel mondo col nome di “Aelia Laelia”.» Sergio ci rimase male per aver sbagliato l’individuazione della lapide che interessava a Roby, e cercò di convincersi che, in fondo, la colpa non era proprio tutta sua. Quando, infatti, il giovane americano gli aveva accennato all’interesse che aveva per una lapide astrusa, senza null’altro aggiungere, la prima che gli era venuta in mente era stata la pietra sepolcrale di Procolo. Non gli passò neppure per la mente che quello sbarbatello apparentemente spaesato - almeno così credeva - si riferisse a “Aelia Laelia” una pietra molto nota, ma in ambienti fortemente culturali e non “nazional-popolari”.
Ma non era il caso di spiegargli il disguido, Roby si era già incamminato verso l’Archiginnasio per cui si limitò a raggiungerlo in silenzio. Quando furono in piazza Galvani, davanti al caffè Zanarini, che occupa parte del portico dell’Archiginnasio, propose di offrirgli un caffè, che Roby rifiutò. «No, grazie, il caffé italiano è troppo forte… » «Qualcos’altro? Un succo di frutta, un aperitivo?...» Sergio guardò l’orologio: erano le undici e a quell’ora non avrebbe potuto fare assolutamente a meno di un buon caffè, e se era in compagnia, meglio ancora. Ripropose l’invito e Roby acconsentì, ma per una birra, non per un caffè. Si sedettero in uno dei tavolini esterni, e Roby, che dava le spalle al bar, sembrò estraniarsi da qualsiasi conversazione, per continuare a prendere appunti sul suo taccuino alzando la testa per guardarsi intorno e riabbassandola per scrivere. Sergio non osava interromperlo e all’arrivo del cameriere ordinò il caffè e la birra senza consultare l’amico. Solo al ritorno del cameriere con l’ordinazione, Roby appoggiò penna e quaderno sul tavolino e, ringraziando, cominciò a sorseggiare la birra. Parve soddisfatto. «Mi hai detto di essere americano - gli disse Sergio cercando di riavviare una qualche conversazione - ma di dove?» «Nashville, nel Tennessee.» «Ah, dov’è stato inventato il basket… se ben ricordo… sai, io ci giocavo, non a Nashville, a basket, intendo…» Roby sorrise, ma rimase silenzioso e appoggiato comodamente sull’elegante sedia del bar, continuò a rimirare la piazza e gli edifici che la circondavano.
«Non male quel palazzo –disse poi indicando con un lieve movimento di testa l’edificio che chiude piazza Galvani su via Farini – ottocentesco, mi sembra.» «Sì, è palazzo Cavazza, un’opera di un architetto bolognese, Giuseppe Mengoni.» «Chi, quello che ha realizzato la galleria Manzoni di Milano?» Sergio rimase addirittura allibito nell’apprendere che quell’americano conosceva anche il Mengoni, ed allora riparò su di un altro argomento, tentando di far conoscere a Roby qualche cosa che gli fosse sconosciuto. «Peccato che, sull’area in cui fu costruito, siano andati persi gli edifici sede dell’antica università di Bologna. C’è una lapide che ricorda come la strada fosse appunto chiamata via delle Scuole.» «Sì, e a proposito di scuole, il palazzo vicino, rifatto sempre nell’Ottocento, era invece dei Legnani, il cui capostipite, Giovanni da Legnano, fu un grande giurista e politico della Bologna del ‘300...»
Disse questo in modo completamente disinvolto, senza alcun atteggiamento di saccenza, come se per lui quelle notizie fossero un pane quotidiano, e ciò fece quasi rabbia a Sergio, che non capiva come fosse possibile che un giovane americano - avrà avuto una trentina d’anni - sapesse tante cose su Bologna e, oltretutto, in modo così preciso e indipendentemente dalle epoche di riferimento. Roby parve capire il disappunto dell’amico: «C’è un’altra lapide in quell’angolo – disse accennando col capo verso l’angolo di via Farini con via del Cane. La conosci?» «Sì, ricorda che lì è morto Guido Reni.» Gli rispose Sergio, ormai rassegnato di sentirsi dire “lo so”. Sì lo sapeva, certamente, ma questa volta Roby non disse nulla. Sembrava che stesse meditando sulle parole da usare per proseguire nell’argomento senza toccare la sensibilità di Sergio. «Vedi – disse poi con un ampio sorriso – a te, quando hai guardato quella lapidetta, sono brillati gli occhi. A me, no. Il Reni è un pittore, un grandissimo pittore, ma non provo quello che tu stai provando al solo sentir pronunciare il suo nome. Io conosco il “Ritratto della madre”, la “Strage degli Innocenti”, la “Pietà della Misericordia”, e tanti altri quadri ancora, ed anche tu, certamente, li conosci, però… Però, guardandoli, tu vedi anche Guido mentre li dipinge. La differenza fra la tua Bologna e la mia è tutta qui ed è purtroppo incolmabile per me.»
Sergio non seppe che dirgli. Tirò fuori una sigaretta, l’accese, si appoggiò beatamente alla comoda poltroncina sentendosi stranamente soddisfatto. Era tornato improvvisamente importante, mentre l’americano Roby James, diventava un suo nuovo amico e tornava ad essere un qualunque turista americano sbigottito dalla bellezza di Bologna e ciò lo portò a riprendere i discorsi sulla città. «A proposito di “Aelia Laelia”, - gli disse - la lapide che t’interessa la conosco anch’io, anche se non l’ho mai fotografata. È collocata nel lapidario del Museo Civico Medioevale, in via Manzoni.» «Lo so!» Rispose laconicamente Roby e, com’era da immaginarsi, i due monosillabi riportarono Sergio allo stato di disappunto da cui era stato liberato da… Guido Reni. Sembrò a quel momento che l’incontro fosse terminato. «Beh, io ora devo andare – disse Silvani, dispiaciuto. - Ti ringrazio per l’aiuto che mi hai dato per trovare quello stemma e della compagnia che mi hai fatto. Ah, complimenti davvero per la conoscenza che hai di Bologna e per la competenza con cui ne parli. Davvero straordinario.» «Grazie a te – gli rispose l’americanino, come non volesse dar peso all’apprezzamento - per avermi mostrato la lapide di Proculo. Sapevo che c’era (“Figurati”, pensò Sergio), ma non l’avevo ancora vista e mi è sembrata davvero interessante.» «A proposito di lapidi, se ti interessa quella di Aelia Laelia, e se vuoi domani ti accompagno, così, mentre tu la studi, io la fotografo e la metto nella mia raccolta.» «Non so se domani posso, ma vedremo.» «Bè, comunque, teniamoci in contatto… Devo darti le foto dello stemma di Don Didaco, ricordi? Se mi dai un recapito, un numero telefonico, la tua e-mail… ti chiamo io.» Roby lo guardò un po’ perplesso, poi si scusò: «Non ho ancora una sede fissa a Bologna, Sergio, la sto cercando. Non ho quindi un telefono e per l’indirizzo elettronico uso sì internet ma mi allaccio dove e quando posso… piuttosto, dammi tu le tue coordinate, così mi farò vivo io appena posso.» Silvani gli diedi un suo biglietto da visita, si strinsero la mano e si salutarono definitivamente. Mentre si allontanava ebbe l’impressione che Roby non avesse una gran voglia di rivederlo, né d’altra parte la cosa lo avrebbe sorpreso, vista l’occasionalità dell’incontro, la differenza d’età e, soprattutto, le diverse e forse antitetiche prospettive con cui apprezzavano Bologna. Peccato, si trovò a pensare. Pur invidiando Roby per tutte le cose che sapeva sulla città e che lui conosceva a malapena, gli era simpatico e avrebbe voluto passare con lui altre mattinate in giro sotto i portici. Mentre tornava al suo motorino, si fermò alla libreria Nanni per guardare nuovamente la vetrina. In un angolo, fra i tanti volumi splendidi dedicati a Bologna, vide quasi casualmente un piccolo libriccino giallognolo. Il titolo, evidenziava l’argomento: “un enigma bolognese, le molte vite di Aelia Laelia Crispis, a cura di Franco Baccelli. Beh, per quel giorno avrebbe comprato un libro, costasse quel che costasse, ed entrò. Solo subito dopo averlo pagato, si accorse che era edito dall’amico Marco Baldazzi e pensò che quei soldi se li sarebbe fatti ridare.
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