Capitolo 3

Nel cortile dell’Archiginnasio

 

La giornata di primavera inoltrata era molto luminosa e ciò permetteva a Sergio Silvani di fotografare meglio il cortile dell’Archiginnasio e l’interno delle sue logge. Non c’era molta gente: qualche turista, certamente, qualche studente che si recava nella biblioteca per consultare testi, qualche addetto che si trasferiva da un ufficio ad un altro.

Nel suo lento andare aveva notato un giovane che, come lui, sembrava cercare qualche cosa, ma che non era affatto spaesato come un turista: era, al contrario molto deciso su ciò che lo interessava, perché guardando una scultura, un arco, una colonna, o chissà cosa, li squadrava con attenzione e prendeva appunti su di un grande block notes.

Sergio ebbe l’impressione che anche lui lo avesse visto, se non altro di sfuggita, perchè i loro sguardi si incrociarono diverse volte. In ogni modo ognuno proseguiva nel suo daffare, il fotografo verificando gli stemmi per lo più a testa alta, l’altro prendendo i suoi appunti a testa bassa, ed entrambi senza guardare dove li portassero i loro sconclusionati spostamenti. Lo scontro fu inevitabile e i due si trovarono seduti per terra; ad uno era sfuggita di mano la macchina fotografica, che non cadde a terra avendola appesa al collo, all’altro, invece, si erano sparpagliati sulla palladiana del loggiato fogli, notes, matita e occhiali. Prima ancora di sapere cos’era accaduto di preciso, e di rialzarsi, esclamarono all’unisono e sovrapponendo le voci:

«Mi scusi, ero distratto…»

Per la verità, lo sconosciuto lo disse in inglese, “Sorry, i did not see you”, ma la coincidenza delle frasi, la loro contemporaneità, il tono di rammarico che l’accompagnavano, e soprattutto il fatto d’essere tutti e due seduti a terra uno fronte all’altro, li costrinsero ad una risata. La cosa ancor più comica è che, mentre ridevano e nell’istante in cui i loro sguardi s’incrociavano, Silvani ribadì il suo “mi scusi” e l’altro, nello stesso istante, il suo “sorry”.

«Un momento… - gli disse Silvani ancora seduto per terra e avanzando la mano aperta per interrompere la ripetitività delle loro reciproche scuse. - Parlo prima io in rispetto all’anzianità, o parla lei mentre io riprendo fiato?»

«Bèh, stavo prendendo appunti e non ho visto dove mettevo i piedi.»

«E io, invece, cercavo uno stemma da fotografare.»

Intanto il giovane era già in piedi e gli porgeva la mano, che ovviamente Silvani prese saldamente per rialzarsi: si presentò:

«Mi chiamo Roby James e sono americano.»

«Mi chiamo Sergio Silvani, sono di Bologna…. Non parlo inglese.»

«Fa niente, è da anni che studio italiano e credo di farmi capire abbastanza bene.»

Sì, l’italiano era perfetto pur se con un accento che ricordava al fotografo Carlo Dapporto, quando imitava Stan Laurel.

«Parla benissimo – lo rassicurò, poi aggiunse - e come mai a Bologna?»

«Sono qui per un corso di specializzazione in letteratura antica.»

L’americano aveva però ben poco d’antico: capelli arruffati, non da punk, ma certamente vicini ad esserlo; occhi azzurri, di un azzurro chiarissimo, quasi che lo sguardo fosse spento, ma in realtà era vivo ed attento; viso smunto e con una rada barbetta volutamente non fatta da diversi giorni. Portava blue jeans stretti e scalcinati, una camiciola a scacchi sdrucita che da mesi non conosceva il caldo del ferro da stiro, uno zainetto accessoriatissimo per contenere tutto ciò che normalmente viene sopportato dalla giacca, scarpe da tennis appena uscite da una camminata fra i rovi. Raccolse da terra quello che aveva sparpagliato nella caduta e si aggiustò gli occhialini sul viso, mentre Silvani cercava di spazzolarsi con la mano la polvere secolare che il piancito dell’Archiginnasio gli aveva lasciato sui pantaloni blu.

«Io – gli disse Sergio – sono un appassionato di Bologna, ma sono qui per lavoro. Debbo fare qualche fotografia per un editore.»

«Io invece sto preparando una tesi sulla cultura bolognese del ‘500 e l’Archiginnasio è il punto focale da dove partire.»

«Conosce l’Archiginnasio?»

«Beh, lo sto vedendo adesso. Sono qui a Bologna da alcuni giorni e per la prima volta, ma l’Archiginnasio lo conosco benissimo e da prima, avendo fatto su di esso la mia ultima ricerca trimestrale.»

«Questa è bella – esclamò Silvani con un certo speranzoso entusiasmo – Stai a vedere che adesso è un americano che risolve il mio problema!»

«Non capisco…» gli disse Roby, mentre stava certamente pensando che quel fotografo altro non era che vecchio matto.

Silvani chiarì:

«Per caso, non sa mica dove sia lo stemma di un certo Don Didaco de Leon Garavito, uno spagnolo che dovrebbe aver frequentato, non so quando, l’Archiginnasio?»

Tre stemmi di Don Didaco dipinti alle pareti dell’rchiginnasio

«Non era uno spagnolo, ma un peruviano; risulta presente a Bologna alla fine del 1500 e nel primo decennio del ‘600, dove si era iscritto all’università; forse fu anche un docente, ma non è detto. Ebbe l’onore di esporre i suoi stemmi qui all’Archiginnasio, essendo il Rettore della “Nazione delle Indie”, che significa delle Americhe. Uno degli stemmi è proprio lì, sulla volta, dietro di lei.»

Sergio si girò come d’istinto, cerco sul muro per qualche secondo, poi lo individuò:

«Messo male, vero? Ci vorrebbe un piccolo restauro.»

Altri due stemmi di Don Didaco

«Ce n’è un altro molto più rifinito, chiaro ed elegante nel piano superiore, in una delle aule del legisti, ma quel locale non è accessibile, per cui credo che lei si debba accontentare di questo.»

«Cavolo! - pensò Sergio - ma sa proprio tutto quello lì!»

Si sentiva quasi offeso per il fatto che uno studentello da pochi giorni a Bologna e oltretutto americano, sapesse dove stava quel maledetto stemma e chi era quello stramaledetto spagnolo, anzi, peruviano. Stava per chiederglielo, quando Roby, avendo forse capito dall’espressione del suo viso o la sua perplessità, o la sua delusione, o entrambe, gli disse quasi a volerlo rassicurare:

«Gliel’ho detto, sono qui per studiare la cultura bolognese del ‘500 e quindi so abbastanza di quel periodo. Piuttosto, non le sembra importante a tal fine sapere che appena un secolo dopo la scoperta dell’America ci fosse a Bologna almeno uno studente proveniente da quel lontanissimo mondo?»

La domanda aumentò la perplessità di Silvani sullo strano personaggio che aveva di fronte, ma assentì, osservando:

«La sua è una considerazione molto importante ed interessante. La carica di questo Don Didaco, “Rettore di Nazione”, farebbe infatti pensare che di studenti americani ce ne fossero a sufficienza per avere una loro corporazione ufficialmente riconosciuta ed un eletto che la rappresentasse.»

«Ma forse non è così – tenne a precisare Roby James – Sembra in realtà che Don Didaco fosse il “solo” americano del tempo a Bologna, ma tanto integrato, da capire che se voleva essere rettore ed avere una propria memoria con stemma nell’Archiginnasio, doveva elargire mance a destra e sinistra…»

Dopo questa nuova spiegazione la perplessità di Silvani si trasformò quasi in rabbia (e forse, invidia) per quello sbarbatello d’oltreoceano che dimostrava ogni momento di conoscere Bologna molto meglio di lui. Per questo aveva ormai deciso di ringraziarlo, salutarlo e andarsene, ma non potè, perché fu Roby James questa volta che sembrò avere bisogno di lui:

«Anch’io, come lei, sto cercando qualcosa, ma è una lapide, un’epigrafe mortuaria ammantata di mistero e famosa in tutto il mondo. Ha una scritta in latino, una specie d’indovinello, qualcosa d’incomprensibile, quasi un enigma…»

Quell’affermazione inattesa, fece sì che l’atteggiamento di Sergio nei confronti dell’americanino cambiasse all’istante, dimenticando il disappunto e rendendolo nuovamente sereno. Pensò con un largo sorriso di soddisfazione che alla fin fine, non era che questo Roby sapesse proprio tutto, e lo rassicurò quasi con entusiasmo:

«So a cosa si riferisce e dov’è. È qui vicino, nella chiesa di San Procolo; cinque minuti a piedi e ci siamo. E’ anche una zona di Bologna interessante, perché qui si sviluppò nel 1200 lo Studio di diritto istituito da Irnerio e proseguito dai suoi allievi.»

Roby non disse nulla, ma Silvani capì benissimo dalla sua espressione che gli aveva raccontato qualcosa che lui sapeva già. E fu meglio così, perché se mai avesse interloquito con un “lo so!”, l’avrebbe picchiato.

«Vogliamo andare…».


Lo stemma di don Didaco

«Io ho tempo –disse Roby gentilmente – ma se lei, signor Silvani, deve fare delle foto allo stemma di Don Didaco le faccia adesso, così la guardo mentre lavora e, magari, me ne darà una copia come ricordo di questo incontro.»

E così Silvani fece. Lo stemma di Don Didaco, bipartito, con a sinistra il leone e la torre di Castiglia e a destra, chissà perché, tre pentoloni appesi che bollivano su di un fuoco ardente, fu fotografato da varie prospettive

poi uscirono dall’Archiginnasio e si diressero affiancati verso via d’Azeglio.

Torna all’ Indice

Vai al Capitolo 4