Capitolo 2 |
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Don Didaco de Leon Garavito
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Dal quel servizio fotografico fatto alla Grada, Sergio Silvani cominciò a ricevere da Balduzzi richieste incessanti di nuove foto. Una sera di fine aprile, giunse come al solito la sua telefonata: «Senti, Sergio – gli disse tutto d’un fiato Balduzzi - domattina vedi di andare all’Archiginnasio. Fammi alcune foto di routine del palazzo e cerca, nel loggiato del cortile, o Dio sa dove, uno di quegli stemmi dedicati ai personaggi famosi che l’hanno frequentata un tempo. Si tratta, prendi nota, di un certo Don Didaco de Leon Garavito. Non chiedermi chi è, tu trova lo stemma, fotografalo e portami il dischetto.» «Sembra uno spagnolo e non credo che possa trattarsi di un docente. E poi, se è uno stemma, è pressoché impossibile trovarlo in così poco tempo, ce ne sono migliaia dappertutto!» «Sono problemi tuoi, sei tu l’esperto di Bologna, non io.» «Dammi almeno qualche indicazione in più.» Balduzzi fu categorico: «No, non ne ho! Dovrei telefonare all’autore, ma non voglio fare la solita figura dell’editore ignorante. Non posso dirgli che non so chi sia stato questo Don Didaco e che mestiere faceva. E poi non ho tempo! Fammi un piacere, prendila come te la do e ci vediamo domani pomeriggio. Ciao.» Sergio sentì il clic della telefonata interrotta e rimase perplesso, convinto che l’indomani sarebbe stata una giornata improduttiva. Cercò le pubblicazioni che parlavano dell’Archiginnasio estraendole dalla sua libreria su Bologna, ma erano troppe e non gli sarebbe bastata tutta la nottata per trovare quel maledetto Don Didaco di cui avrebbe dovuto fotografare lo stemma; senza contare che non era detto che fosse citato fra i libri in suo possesso. Scoprì però che gli elementi che costituiscono la decorazione dell’Archiginnasio sono 5.950 e che, fra aggiunte, modifiche, sovrapposizioni, cancellazioni e rifacimenti, nell’arco di cinque secoli il palazzo aveva contenuto oltre settantamila stemmi. La più grande raccolta araldica illustrata del mondo intero! Cercherò di informarmi sul posto, pensò, ma senza grandi speranze e se ne andò a dormire. A Bologna è impossibile girare in macchina, cosa normale, essendo questo un fenomeno comune a tutte le città d’Italia; d’altra parte il servizio pubblico, non eccelso, ma sufficiente, aveva sempre innervosito Silvani, perché non gli dava quella libertà di movimento che avrebbe sempre gradito avere. Non era vero, senza dubbio, ma se si ha un’idea, anche se sbagliata, è difficile estirparla, soprattutto quando col passare del tempo essa s’incancrenisce nel suo errore e si trasforma in verità incontestabile. Per i suoi movimenti, quindi, Silvani usava un vecchio motorino, un “cinquantino”, come si diceva negli anni ottanta, col quale riusciva a soddisfare le sue supposte esigenze di mobilità, che erano soprattutto quelle, durante il tragitto, di potersi fermare quando vedeva qualcosa che fosse sembrato interessante da fotografare. Così, quella mattina, con comodo, prese il suo “bolide” un po’ arrugginito e fracassone, si pose in testa il casco, insopportabile ma inevitabile, e partì alla volta del centro.
Ben presto fu vicinissimo all’Archiginnasio, non proprio davanti, ma in un viottolo laterale, via de’ Musei, che è costituita da un largo porticato del ‘400, quasi una loggia, detto “della Morte”, molto sopraelevato rispetto al piano angusto e non propriamente pulito della strada. Silvani passava volentieri sotto il Portico della Morte, forse il più largo di Bologna, perché poteva così verificare se la libreria Nanni esponeva qualche nuova pubblicazione che parlasse della città, che costasse poco e che potesse suscitare il suo interesse: tre condizioni, queste, che quasi mai trovava riunite in un libro, per cui i pochi acquisti non l’avevano mai reso cliente abituale. Anche quel giorno si fermò a guardarne la vetrina ma non vide nulla d’appetibile secondo i suoi canoni d’acquisto, per cui si avviò verso il Pavaglione. Man mano che avanzava - il tratto è brevissimo - il suo campo visivo si allargava sempre più sulla fiancata est di San Petronio e sulle grandi vetrate che l’accompagnano fra marmi bianchi finemente traforati.
Svoltò a sinistra sotto il Pavaglione e dopo pochi passi fu davanti al portale d’entrata dell’Archiginnasio. Già qui, sui muri del brevissimo e pomposo corridoio che accompagna il visitatore dal portico esterno a quello interno, apparvero i primi, numerosi stemmi araldici di chi, nei secoli, aveva frequentato quel solenne edificio: rettori, docenti, rappresentanti di facoltà, studenti meritevoli e chissà chi altro. Silvani scosse la testa pensando che non avrebbe mai rintracciato il famigerato Don Didaco de Leon Garavito, anche perché si rese subito conto che i nomi degli stemmi non erano proprio tutti leggibili, vuoi perché distanti, vuoi perché consunti dal tempo, vuoi perché proprio inesistenti. Non c’era nessuna guida cui potesse rivolgersi, né credeva che vi fosse mai stato un ufficio d’informazioni turistiche per il pubblico e, se anche ci fosse stato, non sapeva fin a che punto lo avrebbe potuto aiutare in quell’ impossibile ricerca.
Insomma, l’amico Balduzzi quasi certamente sarebbe rimasto senza la foto dello stemma di Don Didaco, e Silvani già pensava con un po’ d’ironia alla sua faccia disperata, non tanto perché avrebbe dovuto affrontare le rimostranze dell’autore che l’aveva richiesta, ma perché avrebbe dovuto rivolgersi per le ricerche a qualcun altro più competente… il che significava pagare! Comunque, per non aver rimorsi sulla coscienza, fece un tentativo di ricerca cominciando ad avanzare lungo il chiostro che recingeva il cortile, tenendo lo sguardo fisso alle pareti, alle volte e alle lunette del porticato. Mentre camminava così, lentamente e a testa alta, gli sembrò d’essere diventato una specie di videogioco dove lui era il cursore che inquadrava nel monitor le immagini coloratissime che si susseguivano, variando luminescenza, spostandosi irregolarmente, appannandosi, scomparendo o ricomparendo all’improvviso. In parole povere, ma forse più efficaci di un videogame, stava cercando il proverbiale ago nel pagliaio. E fu durante questo suo zigzagare sotto il porticato che conobbe Roby James.
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