Capitolo 1 |
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Fotografare Bologna
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La vita di Sergio Silvani non era stata “strepitosa”, ma certamente non comune. Da giovane aveva giocato a basket (lui diceva a “pallacanestro”, perché ai suoi tempi quello era il termine) e frequentato l’università, giusto per provare e, ovviamente, senza laurearsi. Col tempo, gli avversari sul campo erano sempre più giovani e sempre più alti, ed i professori sempre più esigenti e prepotenti, per cui aveva lasciato squadra ed ateneo, e si era messo a cercar lavoro, senza però trovarlo. La soluzione fu, come spesso succede, di entrare a lavorare nell’azienda del padre, un investigatore privato che aveva a Bologna un’avviata agenzia e così, la sua vita – e lo sapeva benissimo! - divenne ben più difficile, perché era molto meglio sottostare ad allenatori e professori, che al “caro papà”. Poi dopo alcuni anni il papà non ci fu più e l’agenzia passò a lui, che solo allora capì come fosse meglio essere un dipendente che un padrone, perché adesso lavorava di più, aveva maggiori preoccupazioni, non c’erano orari, non c’erano ferie. Nel frattempo si era sposato, divorziato e fatto altri tentativi per avere una donna in casa, riuscendoci soltanto quando questa risultò essere una non più giovane parente che gli veniva a fare i lavori tre giorni alla settimana. Dopo aver così messo a posto la sua situazione famigliare, e dopo oltre vent’anni trascorsi come investigatore, correndo dietro a mogli infedeli, controllando dipendenti malfidati, ascoltando telefonate private o aprendo lettere col vapore (un sistema validissimo anche in epoca tecnologica), aveva deciso di smettere con quella vita e quando si presentò un collega di un’altra città chiedendogli se gli cedeva l’agenzia, lo aveva fatto subito senza neppure trattare troppo sul prezzo. Pur avendo una certa autonomia economica (grazie al cielo, il papà non gli aveva lasciato solo il mestiere) a Sergio Silvani si presentò, come a tutti i “pensionati” o sfaccendati, il problema di come trascorrere il tempo. Solo per poco, però, perché gli vennero immediatamente in soccorso le due cose che aveva imparato facendo l’investigatore, una per necessità di mestiere e l’altra per puro caso. Una era la capacità di usare alcuni moderni mezzi tecnici, specie fotografici, l’altra era l’amore per Bologna. Sì perché a forza di girare per le sue strade, sotto i portici, negli androni dei palazzi, ma anche negli anfratti delle tante antiche e misere case esistenti all’interno del centro storico, si era accorto della bellezza di questa città, quasi scoprendo un mondo nuovo che, nel corso della sua gioventù e nei primi anni di lavoro non aveva mai neppure notato. “Fotografare Bologna” divenne, quindi, da passione che era, il suo nuovo mestiere e lo divenne anche proficuamente, grazie ad un vecchio amico, Marco Baldazzi , che aveva conosciuto all’università, ma che, mentre lui investigava, era diventato un editore specializzato in pubblicazioni su Bologna. Balduzzi era un tipo alto, magrissimo, con un paio di baffi quasi ottocenteschi e con occhiali a lenti spessissime che forse gli servivano a vedere meglio, ma certamente anche e soprattutto a nascondere gli occhi neri e penetranti. Aveva un atteggiamento più avvezzo a comandare che a sorridere e quando parlava era di poche parole e privo di retorica. Veniva sempre al sodo dei discorsi e l’unica cosa che gli interessava era il sì o il no, non accettava i forse e chissà. Erano inutili, se non controproducenti.
Un giorno Sergio Silvani e Marco Baldazzi si erano incontrati casualmente al Bar Opera Cafè & Tulipani, un posticino tranquillo, stile “Ottocento”, che aveva sul retro un simpatico ballatoio esterno da cui, prendendo il caffè, si poteva ammirava il medioevale Canale delle Moline e la cascata con cui esso supera un dislivello di quasi tre metri. Un vero spettacolo nascosto da vecchie case che fanno argine all’irruenza dell’acqua. «Senti, Sergio, – gli disse Marco dopo i soliti convenevoli seguiti all’improvviso incontro - che ne diresti di collaborare con me?… Nulla di eccezionale, ma potrebbe interessarti. So che ti occupi di Bologna, vero?» «Per la verità mi occupo “solo” di Bologna. Non mi resta altro, ora che sono passato dalla parte dei nullafacenti.» «Mania perenne! Credo di avere raggiunto le diecimila foto, tutte digitali e catalogate nel mio computer, palazzi, chiese, statue, quadri, personaggi…» Baldazzi scosse la testa ed agitò la mano come per dire che non gliene importava nulla. «Non servono! Ne voglio delle nuove, ad altissima definizione ed esclusive. La cosa sarà semplicissima: io ti dico cosa devi andare a fotografare e tu lo fai, poi mi porti le foto, io te le pago e tu torni a casa. Ohi, poche storie, le foto che mi fai diventano mie, non per il tuo uso personale! Insomma non le rivendi.» «Ma perché non ti rivolgi ad un professionista… il mio è un hobby, non un lavoro.» Baldazzi guardò quasi con disgusto l’amico, poi scosse la testa: «Un professionista? Non serve! Io ho fiuto per queste cose. La tua passione per Bologna ti rende la persona più adatta per impostare le fotografie migliori e per individuare le inquadrature più idonee.» Sergio fece spallucce. Conosceva troppo bene l’editore e non si esaltò per il suo subdolo complimento. In realtà Baldazzi avrebbe voluto dire che non gliene fregava niente delle foto perfette, né tanto meno della sua passione per Bologna. Intendeva solo sottoindere che se le faceva lui le, foto, invece di un professionista, gli sarebbero costate molto meno. Tutto qui. «Per il compenso – aggiunse infatti Baldazzi, quasi volesse impedire a Sergio di parlare – vedrai che ci mettiamo d’accordo subito… Oddio, non sarà quello di un fotografo professionista, ma sufficiente per accontentarti. D’altra parte, tu fai foto per passione, non per mestiere, ed il piacere che ti procurerebbe questa collaborazione è senz’altro molto più interessante del vil denaro!» Disse proprio “vil denaro”, come facevano quei signorotti rinascimentali che non davano alcun valore alle ricchezze, ma che in realtà applicavano abitudinariamente lo strozzinaggio. Chissà perchè, a Sergio venne in mente Romeo Pepoli, noto a Bologna per i prestiti concessi alle autorità pubbliche, che gli permisero nel 1306, di incassare come interesse la Signoria ed il dominio sulla città. Forse il Pepoli era più nobile ed ambizioso di Baldazzi, ma non era affatto diverso. Baldazzi disse una cifra, e Silvani scosse la testa tentando un impossibile arrotondamento. La disperazione di Baldazzi, però, che “non poteva proprio”, che “davvero l’editoria aveva costi troppo alti”, che “la concorrenza di Internet era micidiale”, che “lo Stato non aiutava”, non fu tale da far smuovere Silvani dal pretendere qualcosa di più e allora, l’editore si appellò accorato alla loro antica amicizia e tanto parlò e disse che fece sentire Silvani come uno sfruttatore di lavoratori onesti. «Al massimo - sembrò concludere Baldazzi – ti potrò dare “gratuitamente” (e disse quella parola con incredibile fatica) una qualche copia dei libri ove le foto saranno state pubblicate. » «Qualche copia? Quante?» «Venti!» Rispose Baldazzi quasi ansante, come se stesse sollevando un macigno. «Cinquanta!» Rilanciò Silvani. «Cinquanta? Un capitale! Mi conviene darti qualche cosa in più e farla finita! Sei proprio un aguzzino… Trenta copie e non se ne parla più.» Altro rilancio: «Quaranta!» L’editore lo guardò malissimo, ma acconsentì. «Però, la consumazione del bar la paghi tu!» disse alzandosi ed andandosene senza salutare. äääää La collaborazione ebbe inizio alcuni giorni dopo, secondo il semplice programma che Baldazzi aveva preannunciato. Telefonava a Silvani per indicargli cosa avrebbe dovuto fotografare, e Silvani partiva con la sua digitale per eseguire l’ordine e per portargli il lavoro svolto il prima possibile. Forse non era un lavoro fra i più esaltanti, ma a Sergio sarebbe piaciuto moltissimo, non tanto perché gli permetteva di soddisfare in pieno la sua passione per Bologna ed essere pagato per questo, quanto per il fatto che gli ordini che avrebbe ricevuto dall’editore, non sarebbero provenuti da lui, ma suo tramite, dagli autori di libri e pubblicazioni su Bologna. Questo gli avrebbe permesso di godere di fonti serie e di conoscere ulteriormente la “sua” città, scoprendovi spesso numerosi aspetti ancora a lui sconosciuti. Il primo lavoro gli venne commissionato da Baldazzi dopo alcuni giorni. La telefonata era stata brevissima e secca: «Sto preparando un libro – gli aveva detto l’editore per telefono – sulle acque di Bologna, in pratica sui canali che un tempo, attraversando il centro storico in lungo e in largo, rendevano questa città, almeno a quanto mi hanno detto, un po’ simile a Venezia. Ma questo non ti riguarda. Devi andare a fotografare la Grada. Ti aspetto domani pomeriggio col lavoro. Ciao.» Il click del telefono aveva interrotto qualsiasi possibilità di ulteriore conversazione e così Sergio il mattino seguente si era recato in viale Vicini per realizzare il servizio commissionatogli, anzi ordinatogli perentoriamente!
Aveva prima di tutto fotografato il Torrione, con ancora la cancellata mobile (detta, appunto, “la Grada”) con cui, secoli addietro, in tempo di guerra o per necessità daziarie, s’impediva il passaggio di estranei sotto la volta/ponte sovrastante il canale: l’acqua doveva sempre e comunque passare, gli uomini e le barche solo se i gendarmi o il bargello lo permetteva sollevando la pesante grata.
Aveva poi fotografato i due brevissimi tratti in cui il canale, prima e dopo il torrione, era scoperto. Due tratti brevissimi, di alcuni metri ciascuno, due invasi pressoché quadrati, quasi fossero piccole piscine o grandi pozzanghere. Quello interno alle mura era stato coperto una cinquantina di anni prima, ma con una recente e, a suo parere, meritoria opera di “recupero” era stato riaperto. Quando Silvani fotografò quel tratto aveva bene in mente una foto d’epoca, in cui alcuni ragazzi sguazzavano in quella specie di pozza melmosa, mentre altri li guardavano divertiti dai parapetti in mattone che si elevavano sui muri di contenimento del canale. Fra gli spettatori c’era anche un mulo…
Sergio pensò di completare il servizio fotografando anche con l’edificio che sorgeva al di là della strada, a pochi passi dall’invaso. Era un vecchi stabilimento artigianale del ‘600, un opificio (come si diceva allora), dove il canale entrava e movimentava le pale che lo facevano funzionare. Dentro, il canale era scoperto, anche se chiuso da alte pareti in muratura. Fotografò l’interno usufruendo di due finestre che ne permettevano la vista dalla strada, ma non si accontentò. Da dentro l’immagine delle acque che scorrevano negli anfratti dell’opificio, sarebbe stata ben più spettacolare e dettagliata, perciò decise di scavalcare il muro di cinta, cosa che non gli fu facile, essendo ben pochi gli appigli idonei per superare l’ostacolo. Il peggio, però, era stato uscire da lì, e se ci riuscì, fu grazie all’utilizzo come supporti precari alla scalata, di alcune assi abbandonate sul camminatoio interno all’opificio che affiancava l’argine sporgendovi sopra. Il servizio fotografico di Sergio Silvani fu davvero splendido e se ne accorse il pomeriggio, quando lo visionò a monitor, dopo averlo scaricato dalla sua Nokia digitale. Nel guardarlo ripensò alla fatica improba che gli era costato, e si convinse che il compenso pattuito con l’editore era senza dubbio insufficiente, ma che era comunque meglio accontentarsi per la soddisfazione che aveva provato a realizzarlo. Se, poi, avesse immaginato che proprio quel servizio, nel giro di qualche settimana, sarebbe stato essenziale per salvargli la vita, l’avrebbe fatto gratis e avrebbe anche ringraziato Baldazzi di averglielo commissionato.
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