CAPITOLO 6
Holmes guardò la Zerbini che sorbiva il suo te con una certa sostenuta indifferenza, ed appena ebbe posto sul tavolino la tazzina, le rivolse nuovamente la parola: «Signorina, mi può dare alcuni ragguagli un po’ più precisi su questo Giuseppe Piccioni che lei riconobbe mentre commetteva l’omicidio?» «Nulla posso aggiungere a quello che ho detto. Riconobbi Giuseppe Piccioni che avevo conosciuto all’osteria “da Alessio”, in Borgo Ballotte, alcuni mesi prima, e che avevo visto gironzolare diverse volte attorno alla bottega di Coltelli, nei giorni precedenti il fattaccio. Lo dissi e lo descrissi al Procuratore, l’ho confermato al processo, ma sembra proprio che nessuno abbia dato peso alle mie parole. Il mio avvocato, Adolfo Pasi, mi disse che sì, gli inquirenti avevano fatto ricerche qua e là per individuare chi potesse essere costui, ma così, giusto per procedura, non certo con la convinzione ch’esso potesse realmente esistere e che io l’avessi visto uccidere l’orefice.» «Capisco…Ma mi dica, signorina… poi non la disturbo più… Vuole descriva anche a me questo Giuseppe Piccioni.» La Zerbini guardò Holmes, poi chiuse gli occhi per un attimo, stringendoli bene, quasi a forza, poi li riaprì, anzi li spalancò accompagnandoli con un lieve sorriso; mai come in quel momento mi parve bella ed affascinante. «Cosa vuol che le dica, signore, – disse – è sulla sessantina, direi qualcosa di più, non altissimo, ben messo, col viso scarno come sciupato; i capelli sono bianchi e corti, tagliati all’ ”umberta”; è completamente sbarbato e senza baffi; ha occhi scuri infossati sotto due folte sopracciglia; il naso è piccolo … ma poi non tanto… e a patata. Non saprei cosa dirvi di più.» Fu a questo punto che un signore distinto, in abito scuro ci si avvicinò con fare falsamente timido: «Scusatemi – disse in un inglese molto approssimato ma tuttavia comprensibile – ma mi trovo davanti al grande investigatore Sherlock Holmes ed al suo mentore dottor John Watson?» L’uomo era piccolo e un po’ grassottello, con una folta capigliatura nera ed un imponente paio di baffi che gli sottolineavano con forza un naso pronunciato, quasi buffo; gli occhi erano scurissimi e vispi, ed il sorriso decisamente aperto e simpaticamente spontaneo. «Sì siamo noi – gli risposi un po’ interdetto – ma lei, scusi, chi è?» «Sono un giornalista, mi chiamo Alfredo Testoni.» «Non abbiamo nulla da dichiarare – esclamò Holmes deciso, per non dire scortese – e tanto meno ad un giornalista!»
Testoni non fu impressionato dall’atteggiamento di Holmes e lo incalzò: «Non ha nulla da dichiarare neppure ad un giornalista che ha assistito a tutte le udienze del processo che tanto le interessa?» A questo punto, Enrica, a cui Luciano stava traducendo affannosamente il dialogo, intervenne con forza alzandosi e avvicinandosi a Testoni: «È vero! Anzi, signor Testoni, io la debbo ringraziare, perché nei suoi articoli, lei ha sempre sostenuto la mia innocenza! Non vedevo l’ora di conoscerla, anche se in fondo in fondo, già la conoscevo, visto che per tutto il processo l’ho vista lanciarmi sguardi che dire d’apprezzamento è dire poco.» Pronta la precisazione di Testoni: «Ammiravo la sua bellezza, Enrica, e la sua capacità di reagire ad un’ingiusta accusa. L’accusa è decaduta, la bellezza c’è ancora tutta!» «Adulatore …» Vedendo quei due quasi cinguettare fra loro, dovetti automaticamente allungare la lista dei pretendenti conquistati da questa donna, aggiungendovi anche un giornalista, ma questo pensiero fu interrotto proprio da Enrica la quale, alzandosi e con uno smagliante sorriso, annunciò: «Se non avete più bisogno di me, io ora devo proprio andare.» Soliti convenevoli, baciamani, lievi inchini d’ossequio, ma prima che la donna potesse avviarsi verso l’uscita dell’Hotel, Luciano si rivolse a noi con fare timido: «Visto che il Signor Testoni parla inglese, io potrei anche andare…. ad accompagnare la signorina Enrica al deposito delle vetture, sempre che lei lo voglia!» «Certamente! – rispose Enrica, senza riuscire a nascondere un certo entusiasmo – Coi tempi che corrono, da sola in mezzo alla strada, sarei molto in imbarazzo. La ringrazio, signor Luciano, sono veramente lieta di averla al mio fianco.» «Vai, vai pure Luciano – gli dissi con tono comprensivo – non ti preoccupare per noi, ci sapremo arrangiare.» I due uscirono dall’albergo e man mano che si allontanavano, mi sembrò che si avvicinassero sempre di più l’una all’altro… ma forse fu solo un’impressione… o forse no? «Bene! – esclamò Holmes – Ora che l’idillio è compiuto, mi dica, signor Testoni, come ha fatto a sapere chi eravamo e chi è che l’ha mandata qui? «Mi ha mandato qui il mio dovere di giornalista. Io vado in cerca di notizie e, spesso, sono le notizie che vengono a cercare me. La vostra presenza a Bologna è notoria, ormai. Se n’è parlato proprio ieri sera al Caffè della Barchetta, dove le voci corrono, specie se riferite ai casi giudiziari.» «Visto come stanno le cose, allora parliamone di questo benedetto omicidio Coltelli. Lei, signor Testoni, era innocentista, almeno a sentire la Zerbini: come mai?» «Per la verità il giornalista sarei io e sarei io, quindi, quello che fa le domande, o sbaglio?» «Se lei non risponde alle mie domande, perché io dovrei poi rispondere alle sue?» «Ovvio, – disse quasi rassegnato Testoni – il che in sostanza significa che potrò intervistarla solo se prima le risponderò… e sia! Cosa m’aveva domandato pure?» «Perché nel caso Coltelli lei era innocentista?» «Non ci sono motivi giuridicamente validi. Sono sensazioni che si hanno, impressioni dovute a fattori estranei a qualsiasi razionalità… Mi spiace, non so dirle di più… No, aspetti… forse un motivo più comprensibile c’è: sono molto amico dell’avv. Adolfo Pasi, difensore della Zerbini, per cui la mia convinzione sull’innocenza può anche derivare dal fatto che lo stesso Pasi patrocinava sì Enrica, ma nella piena convinzione della sua innocenza.»
«E dopo che la Zerbini è stata assolta – incalzò Holmes – si è fatto un’idea di chi potrebbe essere l’assassino?» «Chi, io o Pasi?» «Lei, lei, signor Testoni.» «Io no, nessuna idea. Ma se non è stata la Zerbini, bisogna cercare fra i rapporti che l’orefice aveva non con le sue “cuginette”, ma con altri….» «Chi, per esempio?» «Durante le indagini sembrò risultare che il Coltelli avesse un credito di 1000 lire nei confronti di un certo A. P. e si sospettò, ma lo aveva detto anche la Zerbini, che costui avesse mandato un sicario per uccidere Coltelli e saldare così il debito in modo non proprio ortodosso. L’accusa decadde in sede di dibattito processuale ed anche A.P. fu assolto da ogni addebito. Sono convinto anch’io che A.P. non fosse colpevole, ma l’opinione pubblica, almeno quella dei ceti più popolari, era di tutt’altra idea.» Holmes mi guardò, come a chiedermi cosa ne pensassi ed io strinsi le spalle limitandomi a dire che non essendo io il tecnico investigativo non potevo esprimere alcun parere e che, comunque, i dati in possesso non erano tali da permettermi un’ipotesi qualsiasi di come si fossero svolti i fatti. Holmes cambiò discorso: «Mi stava dicendo, Signor Testoni, di aver assistito a tutti i momenti salienti del processo in qualità di cronista. Può descrivermi i passaggi giudiziari più significativi e che ritiene più utili all’assoluzione della Zerbini?» «Difficile descriverle quello che mi ha chiesto, Signor Holmes, posso solo raccontare ciò che più mi ha impressionato di quel processo che indubbiamente fu alquanto caotico e di cui tutta Bologna parlava...»
Anni prima…
“Tutta Bologna, nei caffè, nei clubs, nelle riunioni grandi e piccole d’amici, non parlava che del famoso processo della Zerbini (questa donna aveva una facoltà stupefacente di trovare sempre una risposta alle più insidiose contestazioni). … Leonida Busi si attirava tutte le ire del popolo che si sfogava a scrivere col carbone degli “Abbasso Busi” sui muri e a correre dietro plaudendo al carrozzone entro cui era trasportata l’accusata dalle carceri di San Giovanni in Monte all’ex Palazzo Grabinski.(Testuale, da un reportage di Alfredo Testoni sul processo N.d.A.)” Il giorno del processo, fin dalle prime ore del mattino, la gente era accorsa al Palazzo di Giustizia ed aveva gremito la parte destinata al pubblico dell’aula grande, quella dove si sarebbe dibattuto da lì a poco, la causa che suscitava tanto interesse.
Non mancarono diatribe ed anche risse fra gli innocentisti (appartenenti al ceto popolare della città), che sostenevano come la Zerbini fosse la vittima sacrificale per nascondere altri tipi di scandali di chi “aveva i soldi”, e i colpevolisti (nobili, alta borghesia, importanti personaggi politici), che ritenevano la Zerbini un’arrampicatrice sociale senza scrupoli la quale, prevedendo che i suoi sogni di affermazione si sarebbero da lì a poco infranti, si era vendicata su chi avrebbe impedito che questi sogni si realizzassero. Non s’era mai visto un simile comportamento in una causa penale e il giudice, entrando e sedendosi al seggio, si trovò immediatamente spiazzato non appena il cancelliere iniziò a leggero l’atto d’accusa: «Processo contro Enrica Zerbini, accusata di omicidio …..» … e giù urla e frastuoni di metà del pubblico: «I én tótti bâl …. (Son tutte bugie …)»; «L è un quèl ch’an s pôl cradder….(È una cosa da non credere …)»; «I én sänper i unèst e i puvrétt chi pèghen … (Son sempre gli onesti e i poveretti a pagare …)» Calmatesi le acque a seguito del martellare continuo ed impetuoso del giudice e dell’intervento dei carabinieri, il cancelliere continuò anche se con voce più titubante: «…accusata di omicidio nella persona di Camillo Coltelli …» … e giù urla e frastuoni dell’altra metà di pubblico: «L’è un’asaséìna… (E’ un’assassina ….)»; «Qualla lé bisåggna inpichèrla, èter che stôri… (Quella bisogna impiccarla, altro che storie…)». In un angolo dell’aula, un popolano, che si scoprì poi essere un facchino della balla di San Mamolo, e un elegante damerino di nobile lignaggio, erano venuti alle mani, circondati ciascuno dai propri sostenitori che aspettavano solo di vedere come andasse a finire, per trasformare il diverbio in una vera e propria rissa. A questo punto, il Giudice urlò a più non posso, smartellando come un ossesso: «Le forze dell’ordine facciano cessare immediatamente la gazzarra, identificandone i responsabili, poi costringano i sostenitori dell’accusata a radunarsi tutti sulle panche di sinistra di quest’aula ed i suoi denigratori in quelle di destra. Avanti muovetevi subito …. Voglio vedere qui dentro ripristinato l’ordine pubblico senza indugio!» L’ingiunzione fu eseguita immediatamente e con tenacia da una quindicina di carabinieri i quali, non appena le due “fazioni” furono ben divise nell’aula, vi si posero in mezzo lungo la corsia che divideva le due file di panche. Era uno strano vedere quella nuova disposizione del pubblico voluta dal giudice: da un lato donne in alta toilette, con merletti, cappellini piumati, collane, e un fare sostenuto, e uomini con camice bianche, giacche a doppio petto, gardenie agl’occhielli e tube e bombette strette fra le mani, tanto che quella metà dell’aula, più che una sede processuale, sembrava essere la platea del Teatro comunale la sera della prima; dall’altra parte, l’ammasso indistinto di popolani, per lo più malvestiti, con le berrette flosce, i gilè sdruciti, la scarpe di canapa avvolte da cinghie. I due gruppi non potevano avvicinarsi, ma si sentiva la tensione scorrere da una parte all’altra e la voglie di entrambe le fazioni di imporre con la forza il loro pensiero o sulla colpevolezza o sull’innocenza dell’imputata. Solo due persone, pur sedendo fra gli altolocati, erano apertamente filo-Zerbini: le note attrici Pia Marchi e Graziosa Glech, le quali, intervistate per l’occasione, dichiararono di parteggiare per l’imputata, in quanto col suo fare dimostrava straordinarie doti recitative tutte da studiare. Il punto cruciale delle indagini, prima, e del dibattito, poi, fu il rapporto esistente fra la povera Enrica, difesa dall’avvocato Pasi, e A. P., patrocinato dall’avvocato Busi. A quanto affermato dalla Zerbini, infatti, A. P. non solo era il proprio amante, ma aveva col Coltelli un debito di ben mille lire che sarebbe scaduto a breve, ed era proprio per coprire questo debito, che A.P. la istigava a commettere i furti nel negozio. Ma se costui era figlio di un notaio, e quindi non certamente un poveraccio, perché aveva bisogno di gioielli rubati per trovare mille lire? Non faceva prima a chiederle a suo padre? Non glieli avrebbe dati, rispose lei, perché l’aveva messo a “steccàtt”, avendo già intaccato parecchio del capitale di famiglia per i suoi bagordi. Ma sempre a parere della Zerbini, c’era dell’altro nei confronti di A. P.: lei lo accusava infatti di essere il mandante del sicario che aveva ucciso Coltelli, quel Giuseppe Piccioni che però non fu trovato, né risultò esistente almeno a Bologna e dintorni. Queste vicende, reali o presunte che fossero, se da un lato sembravano dare ragione ai colpevolisti, perché dimostravano la completa falsità di ogni racconto/rivelazione della Zerbini, dall’altro alimentavano i sostenitori della sua innocenza, sembrando che ben poco si fosse fatto per trovare dei riscontri contro A. P., per far ricadere su di una povera ragazza del popolo ogni responsabilità, e salvaguardare così l’onorabilità della classe privilegiata. Poi venne il momento della sentenza di assoluzione di Enrica. “L’avv. Busi, seduto, immobile, aveva la testa coperta dalle mani. Un pubblico enorme, pigiato, fremente, aspettava. Tutte le teste con gli occhi sbarrati, colle orecchie tese si protendevano verso il capo dei giurati che aveva le mani tremanti e la voce incerta … Poco dopo un applauso clamoroso riempì la vasta aula. La Zerbini era assolta! … L’avvocato Busi alzò fieramente la testa, sfidando con un’occhiata terribile quella folla delirante, poi ammucchiati tutti i suoi libri in fretta e furia infilò, quasi fuggendo, la porta d’uscita… L’avv. Pasi, il difensore della Zerbini, alla porta del Palazzo di Giustizia fu accolto da un applauso frenetico. In fretta, rasente al muro, infilò via del Cane ed entrò nel [suo] ufficio, mentre il popolino di fuori lo chiamava all’onore del proscenio per un numero infinito di volte (Testuale da un reportage di Alfredo Testoni sul processo – N.d.A).” Anche la Zerbini ebbe difficoltà ad uscire dal Palazzo di Giustizia, tanto che utilizzò di soppiatto una porta sul retro che dava direttamente su via Mirasole Grande (attuale via Solferino - N.d.A.), ovvero nel Borgo Ballotte dove per altro era residente. Quando si seppe, tutta la folla si riversò in quella strada e inneggiando alla donna, la costrinse ad affacciarsi ripetutamente al balcone per salutare e ringraziare della manifestazione d’affetto.
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