La medicina diventa scienza

 

MARCELLO MALPIGHI

LAMPI DI VERA LUCE NELL’ARIDO RISTAGNO DI UNO STUDIO IN DECADENZA

 

    Dotto Malpighi, vuole accennare alla sua biografia?

    Sono nato nel 1628 a Crevalcore e ho studiato a Bologna, laureandomi a 25 anni alla facoltà di medicina. Iniziata la docenza, ebbi notevoli contrasti con i “baroni” locali a causa delle mie idee innovative, per cui accettai l’invito dell’università di Pisa che mi affidava una cattedra. Qui approfondii il mio convincimento sulla necessità della ricerca e sperimentazione scientifica. Tornai a Bologna nel 1695 per motivi di salute, ma vi rimasi solo tre anni…

    Anni intensi, con importanti pubblicazioni sulla respirazione e sulla circolazione sanguigna dei capillari.

    Sì ma non servirono ad eliminare le invidie dei colleghi miei concittadini. Anzi! Andai quindi a Messina, dove stetti sette anni… lontano da Bologna, quindi, che ho sempre amato profondamente. Finalmente tornai, con la ferma intenzione di non muovermi più e così sarebbe stato, se Innocenzo XII non mi avesse nominato archiatra pontificio, in pratica suo medico personale. Così mi recai a Roma e fu il mio ultimo viaggio.

    Null’altro da ricordare?

    Sì, una sola cosa, ma importante, senza voler sembrare immodesto. Fui nominato a soli 31 anni membro della Royal Society di Londra, la massima accademia scientifica del mondo. Ciò mi ripagò della poca considerazione che avevo a Bologna. Ciò mi ripagò della poca considerazione che avevo a Bologna.

    “Nemo propheta in patria”!

    Sì ed è difficile chiarirne le ragioni. Occorre pensare, a scusante dei miei concittadini, che la vera scienza medica era ancora ai primordi e tutto si basava su principi dogmatici accettati incondizionatamente, immutabili. Nel portare una ventata di rinnovamento mi trovai contro la tradizione. Vede, anch’io, come Galileo, ebbi i miei problemi, magari in modo meno drammatico, ma li ebbi.

    A da chi in particolare?

    Da due dottori dello Studio, lo Sbaraglia e il Mini i quali, chiaramente”sconfitti” dalle mie idee sul piano scientifico passarono alle vie di fatto, mandando alla mia villa di Crevalcore alcuni brutti ceffi per una spedizione punitiva, non so se contro la mia persona o se per distruggere il mio lavoro. Per fortuna, i miei cari compaesani mi amavano più dei miei colleghi dell’Università e così i randelli “agricoli” annullarono i piani di chi mi odiava.

    Ci vuole parlare del suo sistema scientifico?

    Ero, per usare una parola moderna, un ricercatore e basavo le mie esperienze sull’osservazione diretta dei fenomeni. Anche in ciò mi piace paragonarmi a Galileo: egli aveva usato per primo in cannocchiale nell’astronomia, ed io avevo utilizzato il microscopio nella medicina; egli non credeva ciecamente in Aristotile e Tolomeo, io negavo la medicina di Galeno e le tesi della scuola salernitana. Anche nella medicina c’era la nota formula dell’”ille dixit” che, idolatrando il passato, impediva qualsiasi progresso. Io a Bologna, mi trovavo appunto in questa situazione, attorniato com’ero da colleghi che imparavano a memoria libri scritti da secoli, adottandoli come vangeli incontestabili e non pensando neppure per idea di verificarne la validità con la sperimentazione.

    Credevo che la facoltà di medicina di Bologna fosse all’avanguardia. Come mai questa situazione?

    Occorre risalire nei tempi… La cattedra venne istituita nel 1250 circa da Taddeo Alderotti, un ottimo docente ma, soprattutto, un esemplare professionista pratico, un clinico, come diremmo oggi. Pochi lo sanno, ma fu lui ad inventare, o meglio a scoprire, la necessità dell’igiene pubblica, la ginnastica quotidiana, lo sviluppo dei muscoli, la cura dentaria, il controllo sanitario scolastico. Un secolo dopo, Mondino de Liuzzi istituì la cattedra di chirurgia e descrisse il corpo umano non per supposizione, ma studiandolo direttamente sui cadaveri. Altri grandi si susseguirono: il Varolio, L’Aranzi, il Tagliacozzo… Insomma l’università di medicina di Bologna era giustamente considerata la più quotata e qualificata più grande in assoluto. Ma qui sta il punto! Aveva una tradizione troppo importante per evitare che, pian piano, andasse ad atrofizzarsi nel conservatorismo più rigido, venendo meno ai principi propri della scienza che altrove stavano maturando.

    Scienza come novità, ricerca, progresso, futuro…

    Certo, ed è per questo che le teorie prima di affermarsi dovettero cozzare con quelle statiche dei miei colleghi bolognesi. In effetti, essi erano ossequiati, considerati maestri inimitabili, onorati, mentre io ero messo da parte, nonostante – mi si scusi di nuovo l’immodestia – che ponessi le basi della patologia medica, dell’anatomia microscopica, della fisiologia e dell’embriologia.

    Discriminazione assoluta, quindi, nei suoi confronti, chiusura totale?

    Non così totale come potrebbe sembrare, ma c’era senza dubbio una forte sottovalutazione della mia persona e confronto di altri certamente meno meritevoli. Emblema di questa situazione è proprio l’Archiginnasio, dove le lapidi ed i monumenti che ricordano i nomi del Mini e dello Sbaraglia c’erano loro viventi, mentre per me, si è aspettato non poco.

    Fu però fatta un’ammenda dalla cittadinanza con la posa di una lapide nella quale si chiarisce che un grande nome, ovvero il suo, dottore, non abbisogna di ornamenti, ma basta citarlo per immortalarlo.

    Sì, ma ciò dimostra quello che ho detto io: la mia fu una fama – almeno a Bologna – riconosciuta a posteriori… quella lapide e cosa per morti, non per vivi e nel cinquecento era molto importante avere il nome sul marmo quando si lavorava.

    Non solo i monumenti “in memoria”, però, hanno riabilitato il suo nome, Dottore, ma la stessa scienza medica.

    Sì, è vero e costituisce la mia maggiore soddisfazione. Fra i giovani i miei studi attecchirono e germogliarono soprattutto con due grandi maestri della Medicina, entrambi studenti a Bologna: l’imolese Anton Maria Valsala ed il forlivese Giambattista Morgagni.

    Dottor Malpigli, cosa pensa lei, medico del ‘600, della medicina moderna?

    È impossibile dare una risposta dal punto di vista scientifico, sarebbe come chiedere ad un cavernicolo cosa ne pensa dei grattacieli. Se vuole invece che mi esprima sull’aspetto strutturale della questione, le dirò allora che non è cambiato molto dai miei tempi, ovviamente fatte le giuste proporzioni.

    In che senso, mi scusi?

    Come nel ‘600, anche oggi si parla di “baronie” mediche, di insufficienza sanitaria sociale, di ospedali privati più efficienti di quelli pubblici, di polemiche a livello personale, di interessi economici legati alla sanità, di riformisti e conservatori… Insomma penso che l’ambiente non ha seguito come doveva il progresso della medicina, per cui, in certi casi, è anche reso vano.

    Mi dispiace chiudere questa intervista in un modo così scettico, dottore, anche perché sarebbe giusto, su questa sua affermazione, approfondirne i contenuti e, forse, contestarla.

    Lei mi ha chiesto un parere ed io l’ho espresso. La responsabilità non è mia.

    Grazie, dottore Malpighi, per l’intervista concessami e, soprattutto, per quanto da lei fatto per la medicina.

    Prego, mio dovere di scienziato!