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La medicina diventa scienza MARCELLO MALPIGHI LAMPI DI VERA LUCE NELL’ARIDO RISTAGNO DI
UNO STUDIO IN DECADENZA —
Dotto Malpighi, vuole accennare alla sua
biografia? —
Sono nato nel —
Anni intensi, con importanti pubblicazioni
sulla respirazione e sulla circolazione sanguigna dei capillari. —
Sì ma non servirono ad eliminare le invidie
dei colleghi miei concittadini. Anzi! Andai quindi a Messina, dove stetti
sette anni… lontano da Bologna, quindi, che ho sempre amato profondamente.
Finalmente tornai, con la ferma intenzione di non muovermi più e così sarebbe
stato, se Innocenzo XII non mi avesse nominato archiatra pontificio, in
pratica suo medico personale. Così mi recai a Roma e fu il mio ultimo
viaggio. —
Null’altro da ricordare? —
Sì, una sola cosa, ma importante, senza
voler sembrare immodesto. Fui nominato a soli 31 anni membro della Royal
Society di Londra, la massima accademia scientifica del mondo. Ciò mi ripagò
della poca considerazione che avevo a Bologna. Ciò mi ripagò della poca considerazione
che avevo a Bologna. —
“Nemo propheta in patria”! —
Sì ed è difficile chiarirne le ragioni.
Occorre pensare, a scusante dei miei concittadini, che la vera scienza medica
era ancora ai primordi e tutto si basava su principi dogmatici accettati incondizionatamente,
immutabili. Nel portare una ventata di rinnovamento mi trovai contro la
tradizione. Vede, anch’io, come Galileo, ebbi i miei problemi, magari in modo
meno drammatico, ma li ebbi. —
A da chi in particolare? —
Da due dottori dello Studio, lo Sbaraglia e
il Mini i quali, chiaramente”sconfitti” dalle mie idee sul piano scientifico
passarono alle vie di fatto, mandando alla mia villa di Crevalcore alcuni
brutti ceffi per una spedizione punitiva, non so se contro la mia persona o
se per distruggere il mio lavoro. Per fortuna, i miei cari compaesani mi
amavano più dei miei colleghi dell’Università e così i randelli “agricoli”
annullarono i piani di chi mi odiava. —
Ci vuole parlare del suo sistema
scientifico? —
Ero, per usare una parola moderna, un ricercatore
e basavo le mie esperienze sull’osservazione diretta dei fenomeni. Anche in
ciò mi piace paragonarmi a Galileo: egli aveva usato per primo in
cannocchiale nell’astronomia, ed io avevo utilizzato il microscopio nella
medicina; egli non credeva ciecamente in Aristotile e Tolomeo, io negavo la
medicina di Galeno e le tesi della scuola salernitana. Anche nella medicina
c’era la nota formula dell’”ille dixit” che, idolatrando il passato, impediva
qualsiasi progresso. Io a Bologna, mi trovavo appunto in questa situazione,
attorniato com’ero da colleghi che imparavano a memoria libri scritti da
secoli, adottandoli come vangeli incontestabili e non pensando neppure per
idea di verificarne la validità con la sperimentazione. —
Credevo che la facoltà di medicina di
Bologna fosse all’avanguardia. Come mai questa situazione? —
Occorre risalire nei tempi… La cattedra
venne istituita nel 1250 circa da Taddeo Alderotti, un ottimo docente ma,
soprattutto, un esemplare professionista pratico, un clinico, come diremmo
oggi. Pochi lo sanno, ma fu lui ad inventare, o meglio a scoprire, la
necessità dell’igiene pubblica, la ginnastica quotidiana, lo sviluppo dei
muscoli, la cura dentaria, il controllo sanitario scolastico. Un secolo dopo,
Mondino de Liuzzi istituì la cattedra di chirurgia e descrisse il corpo umano
non per supposizione, ma studiandolo direttamente sui cadaveri. Altri grandi
si susseguirono: il Varolio, L’Aranzi, il Tagliacozzo… Insomma l’università
di medicina di Bologna era giustamente considerata la più quotata e
qualificata più grande in assoluto. Ma qui sta il punto! Aveva una tradizione
troppo importante per evitare che, pian piano, andasse ad atrofizzarsi nel
conservatorismo più rigido, venendo meno ai principi propri della scienza che
altrove stavano maturando. —
Scienza come novità, ricerca, progresso,
futuro… —
Certo, ed è per questo che le teorie prima
di affermarsi dovettero cozzare con quelle statiche dei miei colleghi bolognesi.
In effetti, essi erano ossequiati, considerati maestri inimitabili, onorati,
mentre io ero messo da parte, nonostante – mi si scusi di nuovo l’immodestia
– che ponessi le basi della patologia medica, dell’anatomia microscopica,
della fisiologia e dell’embriologia. —
Discriminazione assoluta, quindi, nei suoi
confronti, chiusura totale? —
Non così totale come potrebbe sembrare, ma
c’era senza dubbio una forte sottovalutazione della mia persona e confronto
di altri certamente meno meritevoli. Emblema di questa situazione è proprio
l’Archiginnasio, dove le lapidi ed i monumenti che ricordano i nomi del Mini
e dello Sbaraglia c’erano loro viventi, mentre per me, si è aspettato non
poco. —
Fu però fatta un’ammenda dalla cittadinanza
con la posa di una lapide nella quale si chiarisce che un grande nome, ovvero
il suo, dottore, non abbisogna di ornamenti, ma basta citarlo per
immortalarlo. —
Sì, ma ciò dimostra quello che ho detto io:
la mia fu una fama – almeno a Bologna – riconosciuta a posteriori… quella
lapide e cosa per morti, non per vivi e nel cinquecento era molto importante
avere il nome sul marmo quando si lavorava. —
Non solo i monumenti “in memoria”, però,
hanno riabilitato il suo nome, Dottore, ma la stessa scienza medica. —
Sì, è vero e costituisce la mia maggiore
soddisfazione. Fra i giovani i miei studi attecchirono e germogliarono soprattutto
con due grandi maestri della Medicina, entrambi studenti a Bologna: l’imolese
Anton Maria Valsala ed il forlivese Giambattista Morgagni. —
Dottor Malpigli, cosa pensa lei, medico del
‘600, della medicina moderna? —
È impossibile dare una risposta dal punto di
vista scientifico, sarebbe come chiedere ad un cavernicolo cosa ne pensa dei
grattacieli. Se vuole invece che mi esprima sull’aspetto strutturale della
questione, le dirò allora che non è cambiato molto dai miei tempi, ovviamente
fatte le giuste proporzioni. —
In che senso, mi scusi? —
Come nel ‘600, anche oggi si parla di
“baronie” mediche, di insufficienza sanitaria sociale, di ospedali privati
più efficienti di quelli pubblici, di polemiche a livello personale, di
interessi economici legati alla sanità, di riformisti e conservatori… Insomma
penso che l’ambiente non ha seguito come doveva il progresso della medicina,
per cui, in certi casi, è anche reso vano. —
Mi dispiace chiudere questa intervista in un
modo così scettico, dottore, anche perché sarebbe giusto, su questa sua
affermazione, approfondirne i contenuti e, forse, contestarla. —
Lei mi ha chiesto un parere ed io l’ho
espresso. La responsabilità non è mia. —
Grazie, dottore Malpighi, per l’intervista concessami
e, soprattutto, per quanto da lei fatto per la medicina. —
Prego, mio dovere di scienziato! |