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Bologna, scuola d’artisti GUIDO RENI NASCE
ALL’OMBRA DELLE DUE TORRI —
Maestro, lei è stato uno dei più celebrati
pittori della prima metà del ‘600, forse il più famoso e, certamente, il più
pagato. Pensa di avere meritato questa fama? —
Certo! Allora, solo la vera capacità
artistica determinava la fama dei pittori, non come adesso che vi concorrono
tanti altri fattori che nulla hanno a che vedere con l’arte. Io ero il
migliore di tutti e anche Rubens e Van Dick – scusi se è poco! – non mancarono
di riconoscere la mia superiorità e di rendermi omaggio. —
Mi scusi, maestro e non s’offenda… Ma da
come parla si dovrebbe dar ragione alle cronache del tempo: la modestia non è
il suo forte. —
E perché mai dovrei essere modesto? Il vero
artista deve avere un alto concetto di se stesso, se non è un immortale, ma
un mediocre! Ed io non appartengo certo a questa categoria. —
Parliamo allora della sua arte: cosa
l’ispirava? —
L’ispirazione non esiste! Due sono le cose
che servono al grande pittore: la prima è lo studio incessante, il continuo
perfezionamento della propria tecnica e delle capacità di esprimersi; la
seconda è l’”idea”, ovvero l’immagine che l’artista si crea nel suo intimo
per trasferirla poi sulla tela. —
Ma questa che lei chiama idea, non è forse
l’ispirazione? —
Lei non mi vuole capire! Non esistono
visioni beatificanti che balzano all’improvviso in mente, magari mentre si
dorme. Fandonie, balle! Occorre studiare, provare e riprovare come ho fatto
io per anni ed anni, nella più nera miseria, senza neppure la carta per disegnare,
né la luce necessaria per vedere… centinaia di occhi, nasi, piedi, dipinti
sui muri al chiarore di un lumicino… ecco com’è nato Guido Reni, il grande
Guido Reni! —
Bologna, nel ‘600, fu la capitale indiscussa
della pittura italiana: lei, i Carracci, il Domenichino, il Guercino,
l’Albani… —
L’Albani no! Lui non c’entra, non è un
artista! È stato solo un nessuno, intento a “pensieretti e coserelle” fatte
quasi per scherzo. Agli altri posso anche concedere una qualche validità, ma
a lui no, nessuna! —
Penso che non corresse buon sangue fra lei e
lui… Parliamo allora dei Carracci. Come mai anche con loro lei non ebbe buoni
rapporti, e ciò nonostante che fossero stati i suoi maestri? —
A Bologna, i Carracci erano una mafia che
monopolizzava tutte le più importanti commesse: occorreva lottare e non poco
per poter trovare un proprio spazio. Io ci riuscii e a soli venticinque anni,
quando vinsi il concorso per celebrare papa Clemente VII. Ancora
giovanissimo, Guido Reni si affermava pubblicamente con le sue uniche forze e
nonostante la potentissima bottega dei Carracci! È per questo che essi furono
i primi ad aversela con me. È per questo che essi furono i primi ad aversela
con me. —
Si trattò, quindi, di una questione concorrenzaiale. —
Non soltanto. Vi erano anche ragioni
prettamente estetiche, vale a dire diversità di vedute su come intendere la
pittura. Ai loro coloriti forti, io contrapponevo carnagioni più delicate;
essi usavano effetti di luce serrata e dall’alto, io preferivo la completa
luminosità sul soggetto; essi oscuravano i fondi per dar risalto ai primi
piani (così dicevano, ma in realtà era uno stratagemma per superare le
difficoltà tecniche delle ombra sullo sfondo), io preferivo il chiarore del
mezzogiorno che nulla nasconde. Ma la differenza che più ci dividevano è che
i Carracci dipingevano ciò che vedevano in natura così com’era, mentre io,
oltre a scegliere il bello ed il più perfetto, lo miglioravo dipingendolo, dandogli
quella nobiltà artistica che mancava all’originale. —
In termini moderni, i Carracci erano
realisti e portatori di una pittura laica; lei, invece, ricercava la bellezza
assoluta con un senso di profonda religiosità. Dico bene? —
Fino ad un certo punto… Anch’io, infatti, ho
amato la realtà, ma al posto della violenza e della drammaticità fini a sé
stessa, ho preferito attenuare i troppi contrasti chiaroscurali ed il crudo
linguaggio dei gesti. —
Non mi sembra, almeno guardando la sua
“strage degli innocenti”. —
Che c’entra! In quella vicenda non potevo
ammettere sentimenti di tenerezza, essendo troppo forte la tragedia che
dovevo rappresentare. Il mio realismo, in quel caso, fu tale che l’Arpino
ebbe a scrivere: “Che fai, Guido, che fai? / Non vedi che mentre il sanguinoso
/ stuol di fanciulli ravvivando vai / nuova morte lor dai?” —
Lei lavorò a Roma diverse volte, rimanendovi
anche dieci anni. Tuttavia, è sempre ritornato a Bologna, da cui non si mosse
più. Fu amore per la sua città? —
Anche, ma la ragione principale fu che a
Roma non mi trovai bene. L’ambiente artistico era tremendo e per me
insopportabile. Andai anche a Napoli, nel ’22, se ben ricordo, e fu peggio
ancora, perché la cricca locale dei pittori difendeva con denti la propria
clientela. Sciolsi i contratti e fuggii… Fu una fortuna, perché un altro
bolognese, il povero Domenichino, che volle restare a Napoli, fece una brutta
fine. —
Uno dei suoi quadri più famosi, maestro, è
il ritratto che fece a sua madre, una splendida immagine di donna del suo
tempo. Ce ne vuole parlare? —
Innanzitutto voglio precisare che non si
tratta di mia madre, ma di una nobile dama bolognese. Quando i critici hanno
pensato che si trattasse di mia madre, in effetti, pur sbagliando, non hanno
nulla da rimproverarsi, perché a parte le sembianze, se avessi voluto
dipingere mia madre, i caratteri pittorici sarebbero stati proprio quelli.
Era anziana, austera, di rigidi principi. —
Quali furono i rapporti con lei? —
L’adoravo e riconosco che ha avuto una
grande influenza sulla mia vita. Quando morì, donne in casa non ne ho avute più,
se non come modelle; e questo fu alquanto grave, perché mi mancò l’affetto di
una donna nel momento di maggior bisogno, verso la fine della vita, quando gioco,
debiti, strozzinaggio e malattia mi portarono all’estrema rovina. —
Nessuno l’aiutò o le fu vicino? —
Nessuno! Solo il mio amico Ferri, ma proprio
quando per me non c’era più nulla da fare, se non allievarmi un po’ le
sofferenze e accontentarmi in qualche piccola richiesta che facevo, come
quella di essere allietato da un po’ di musica. —
Come giudica, maestro, l’arte moderna? —
Non la capisco e se non capisco non giudico!
Se poi volessi proprio dare un parere, sarebbe molto crudo. Io amo i
pennelli, l’esattezza del disegno, i chiaroscuri, le prospettive, i primi
piani, i fondali; amo i dipinti che piacciono sia agli inesperti, senza tante
storie e parolone per convincerli, sia ai critici d’arte che li giudicano.
Non posso sopportare, invece, le ricerche astruse, le realizzazioni pittoriche
sciocche, inconcepibili o, peggio, sensazionali per la loro stranezza; odio i
materiali diversi da tela, pennelli e colori… —
Alla faccia del non dare giudizi, maestro!
In tre parole ha demolito l’arte da cent’anni a questa parte! —
Quale arte? L’arte che intendo io è quella
che chiunque può ammirare andando alla Pinacoteca di Bologna, dove stanno i
miei quadri e quelli degli altri artisti del mio tempo. —
Anche le tele dell’Albani? —
No, quello no! Ogni regola ha la sua
eccezione… —
Perché tant’astio, maestro, fra lei e lui?
Me lo vuole dire? —
Mi aveva battezzato “vanone”, ovvero borioso
e questo nomignolo mi rimase sempre… Ma quel che è peggio è che, quando mi
trovai in miseria, egli mi ribattezzò “smorzasolfanelli”, perché spegnevo i
fiammiferi per riutilizzarli… Capisce? Smorzasolfanelli a me, a Guido Reni! —
La ringrazio, maestro, dell’intervista e mi
auguro che là dove siete voi pittori bolognesi del ‘600, abbiate fatto pace,
dimenticando gli attriti della vita terrena. |