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L’anticultura del ‘500 GIULIO CESARE CROCE UN
CANTASTORIE PER LE STRADE DI BOLOGNA —
Caro Bertoldo, con te non occorrono
salamelecchi. Diamoci del tu e cominciamo. —
Si diamoci del tu! Il voi e il lei
lasciamoli a gente più importante di noi. Io sono uno alla buona, un
contadino! —
Contadino, sì, ma ami come in questo caso,
“scarpe grosse e cervello fino”. —
Mica tanto, poi! Se avessi avuto un po’ di
cervello non sarei certo andato alla corte di Re Alboino a crearmi tutti quei
grattacapi. Sarei rimasto tra i miei campi e le mie galline a vivere in pace,
lontano dagli intrighi di corte. Non ti sembra? —
Ma allora perché ci sei andato? —
Per vedere se tutta quella gente là era
fatta come noi, poveri mortali. Poi, visto che non c’era differenza e che,
anzi, io capivo più di loro ho preso gusto a farli ammattire e sono rimasto.
Accidenti a quel giorno! —
Si, conosco la storia… Di guai ne hai
passati parecchi! —
Però che soddisfazione per un contadino come
me mostrare saggezza e intelligenza a re, ministri e cortigiani. È stata una
specie di rivincita della mia categoria, una riaffermazione di parità di
diritti in un tempo in cui di parità e di diritti non se ne parlava affatto…
almeno fra differenti classi sociali. —
A proposito, come faceva un contadino come
te a sapere tante cose sagge, senza scuole e senza professori? —
Non è mica vero che io non avevo scuola! La
campagna è stata la mia maestra e a tempo pieno! Da essa ho appreso tutto quello
che c’era da sapere sulla vita. So che voi moderni apprezzate molto questo
tipo d’istruzione e che le avete anche dato un nome altisonante, “cultura contadina”;
mi fa piacere, perché in definitiva, fui io il primo ad applicarla
praticamente. —
Ma alla corte di Re Alboino, a Verona,
quanta della tua saggezza è rimasta? —
Ben poco, credo! Almeno a giudicare da
quanto è successo poi nei secoli seguenti. Non c’è peggior sordo di chi non
vuol sentire… o, come ho letto in una massima moderna che mi è piaciuta moltissimo:
“Quando il saggio indica il sole, lo sciocco guarda il dito.” Per insegnare
qualche cosa, occorre che vi sia la volontà d’intendere da parte di chi
ascolta, se no, è tutto inutile. —
In questa tua saggezza non avevi un gran
rispetto delle donne. Come mai? —
Figuriamoci se non veniva fuori questa questione!
Perché non voler capire che io ero un uomo del mio tempo? Non pretenderai che
io anticipassi di secoli ciò che solo adesso e a stento si sta realizzando
fra donne e uomini? Allora le donne erano quelle che erano ed io le trattavo
un po’ male, d’accordo, ma se guardi bene, solo quelle nobili, non le altre,
quelle del popolo, come mia moglie Marcolfa, saggia forse più che me!
Comunque accetto il tuo appunto che, in definitiva, ho pagato a caro prezzo. —
In che senso, scusa? —
Divenni in pratica un perseguitato politico.
Io sostenevo che le donne non avevano capacità di governo, la regina diceva
il contrario. Il bello è che io dimostrai a tutta la corte di aver ragione e
da quel momento tutte le gonnelle della città mi furono contro, specie la
regina. Mi fece mettere in un sacco per buttarmi in Adige, cercò di farmi ammazzare
a bastonate, convinse il re a condannarmi all’impiccagione… e se riuscii ad
evitare tutto ciò, fu grazie al mio geniaccio! Ma che paura… tutto a causa
delle femministe del tempo! —
Guarda che così dicendo, ti farai odiare
anche da quelle d’oggi che, ti assicuro, non sono di certo da meno. —
No, sono troppo intelligenti per non
capirmi. —
Quando hai detto di essere stato un
perseguitato politico, non hai forse un po’ esagerato? —
Lo sono stato e come! Stai a sentire: io
volevo mangiare rape e fagioli, ma non me ne davano mai e allora, feci anche
lo sciopero della fame, ma siccome non mi accontentarono finii molto male. Anche
adesso chi fa lo sciopero della fame per affermare i suoi diritti si proclama
perseguitati politici… ma non muore mica come ho fatto io! Riprende prima o
poi a mangiare e con grande beneficio per la salute… un po’ di dieta non
guasta! Dirò di più: io credo di essere stato un perseguitato politico molto
coerente con le mie idee e con me stesso. —
Bertoldo, questa è una facezia, un sofisma
non degno di te! Passiamo a parlare allora del tuo biografo ufficiale: Giulio
Cesare Croce. Cosa mi puoi dire di lui? —
Era veramente un grandissimo artista… Il
migliore scrittore che l’Italia possa vantare, anzi, il mondo intero! Croce
era una persona meravigliosa, un ingenio scintillante, un carattere amabile…
Insomma era permanete il massimo! —
Altolà, Bertoldo, qui ti sei scoperto un po’
troppo! Avanti, giù la maschera, tu sei proprio il Croce travestito da
contadino. Come mai questa mascherata! —
Uffa! Tutti parlano di Bertoldo, conoscono
Bertoldo, Bertoldo qui, Bertoldo là, sempre lui…. Mai nessuno che parli di me
che ne sono l’inventore. Così, una volta tanto, mi sono fatto passare per
lui, per poter parlare anch’io. Credo che nessun autore sia mai stato come me
surclassato in notorietà dal personaggio che ha creato. —
Come mai? —
Non lo so! Io mi sono limitato a scrivere
un’operetta, il pubblico l’ha personalizzata e così Bertoldo vive ed io no…
Bertoldo piace ed io resto nel dimenticatoio. —
E allora parliamo un po’ di te! Eri anche tu
un contadino? —
No, ero figlio di un fabbro, un fabbro di S.
Giovanni9 in Persocelo ed anch’io feci per tanti anni quel mestiere. —
Come mai sei poi diventato un letterato? —
Io letterato? Ma scherzi! Io appartengo
all’anticultura del ‘500. Forse avrei voluto anche esserlo, ma mi mancavano i
presupposti, le doti necessarie: non sapevo fare l’adulatore, non andavo mai
dove ero invitato; mi piaceva dire pane al pane e vino al vino, senza
guardare in faccia a nessuno; non ero un parassita, insomma non avrei mai potuto
fare il giullare di corte! I miei dolori, io, li ho sempre tenuti per me, non
li ho trasformati in iscittto per farli passare per opere d’arte. Come letterato
del mio secolo sarei stato proprio una frana! —
Tuttavia le tue prime esperienze artistiche
furono proprio presso i potenti; non è forse vero? —
Solo in un certo senso. Dai tredici ai
diciott’anni ero fabbro in una fattoria dei Fantuzzi, a Medesano, ed ogni
tanto, poiché allora cominciavo a raccontar storie o a cantar ballate, i
Signori mi chiamavano alla loro mensa per rallegrarli con le mie facezie. —
Così nacque Croce della Lira, il
cantastorie! —
Furono solo i preallarmi. Venni a Bologna
nel 1568 per fare il fabbro in città e forse avrei continuato questo mestiere
se un salumiere – accidenti a lui! – non mi avesse regalato un libro di
Ovidio trovato fra la carta che usava per incartare lo strutto. Così,
leggendo e rileggendo quelle pagine, pian piano mi convinse che anch’io avrei
potuto scrivere. Abbandonai quindi fucina ed incudine… —
… e fu la fortuna! —
No, fu la fame! Te l’ho già detto che non
avevo il carattere per fare il letterato. Come alternativa non rimaneva che
il cantastorie, ma la piazza rendeva solo applausi e non denaro. Ascoltavano
le “zirudele” che cantavo accompagnandomi con la lire, ma non riuscivo a
vendere i fogli sui cui erano state stampate. —
Il tuo Bertoldo è stato comunque un
“best-sellers” del tempo ed anche il seguito della storia, il Bertoldino, fu
un grande successo. —
Sì, ma non subito: per diventare un’opera
immortale aspettarono che io morissi! Vale a dire che io, di diritti
d’autore, non ne ho mai incassati! —
Caro Croce, l’intervista è finita. Ti saluto
e ti ringrazio. —
Grazie a te! Ora mi rimetto la maschera di
Bertoldo e mi godo ancora un po’ della sua notorietà. Ciao. |