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Ricchezza, potere e buon governo TADDEO PEPOLI ALLA RICERCA DI UN SIGNORE —
Signor Taddeo, la posizione di preminenza che
lei acquisì verso la metà del ‘300 a Bologna, la si deve maggiormente alle ricchezze
di suo padre, Romeo Pepoli, o alle sue capacità politiche. —
Non credo che lei si aspetti da me una
risposta che riconosca più meriti al denaro di mio padre, che alle mie iniziative!
La domanda, quindi, mi sembra insulsa. —
Con la ricchezza, però, suo padre l’aveva
anticipata, essendo stato signore di Bologna prima di lei. —
No! Il primo ed unico signore di Bologna fui
io e tengo a precisarlo: nessuno ci f prima e nessuno dopo. È vero che mio
padre ebbe una notevolissima egemonia all’inizio del ‘300 e che nel secolo successivo
furono i Bentivoglio a dominare la città, mai fui il solo ad avere un avallo
di legittimità, sia dagli organi costituzionali comunali, sia dai governi degli
altri stati. —
Di suo padre, tuttavia, occorre parlare. —
Era effettivamente ricchissimo, potendo
contare su di una rendita di 12.000 fiorini all’anno (che tradotti in termini
moderni significa decine e decine di miliardi di lire): Forse era il più
ricco d’Italia in assoluto. Faceva il banchiere e prestava denaro a chiunque,
e uno dei suoi clienti più assidui era lo stesso comune di Bologna; logico,
quindi, che acquistasse molta influenza politica. La sua definitiva egemonia
la realizzò nel 1307, quando riuscì a cacciare per sempre i Lambertazzi che
scomparvero come famiglia e fazione dalla scena politica bolognese. —
Lo stemma a scacchi bianchi e neri dei
Pepoli domina quindi su Bologna. Perché quello stemma? —
Gli scacchi erano la rappresentazione
grafica di un abaco, un pallottoliere, un “calcolatore”, un qualcosa, insomma
che serviva per contare i soldi e le valute estere. —
Per quanto tempo Romeo fu a capo della
città? —
Una quindicina d’anni: il suo governo fu
sostanzialmente corretto e i bolognesi trascorsero quel periodo in pace e
senza eccessivi travagli politici o economici. —
Non furono però pochi i privilegi di cui la
famiglia Pepoli godette. —
Sì, senza dubbio, ma la cosa era bene
accetta. Lo dimostra il fatto che quando io ottenni la laurea in giurisprudenza,
il Consiglio del Popolo decretò l’evento come festa pubblica. —
Fu, se non sbaglio nel 1321, un anno prima
della cacciata da Bologna di Romeo e della sua famiglia. Non le sembra che
quella decisione del Consiglio del Popolo puzzi un po’ di bruciato? —
Assolutamente no! I cambiamenti delle
simpatie popolari erano in quel tempo imprevedibili…. Voglio dire che nulla
vieta che nel ’20 tutti fossero dalla nostra parte e che nel ’21 tutti ci
considerassero nemici. Vero è che più i Pepoli diventavano potenti e più le
altre famiglie nobiliari si davano da fare per scalzarli. —
Soprattutto i Gozzadini, capi del partito
dei “Maltraversi”. —
Furono così chiamati per il fatto che il
loro stemma era attraversato da una banda irregolare. Fra scacchesi, ovvero
noi Pepoli, dallo stemma a scacchi, e Maltraversi scoppiò la guerra e a noi
andò male. Il popolino, spinto da Gozzadini, Azzoguidi e Galluzzi invase il
nostro palazzo, costringendoci ad una fuga precipitosa e rischiosissima.
Evitammo il linciaggio per la prontezza di spirito di mio padre, che gettò
agli inseguitori manciate di monete d’oro; la loro avidità ci permise un
vantaggio sufficiente per allontanarci da Bologna. —
La città rimase senza Pepoli per sedici
anni. Fu un bene o un male? —
I bolognesi capirono subito l’errore fatto.
I primi anni subirono un’anarchia incontrollata e sanguinosa a causa di
quelle stesse famiglie che ci avevano cacciato e che volevano a loro volta
conquistare il governo della città. Poi, dal 1327 al 1334, furono sotto il
giogo tirannico dello Stato Pontificio e del suo Cardinal Legato Bertando del
Poggetto, un francese rigido esecutore degli ordini della Chiesa di Avignone. —
Tuttavia, fu con quel Cardinale e i Pepoli
poterono rientrare a Bologna. —
Sì, e anche i Gozzadini che ne erano stati
cacciati subito dopo di noi. Da un punto di vista politico questo di Bertrando
fu un errore gravissimo e per due motivi: prima perché appena rientrati
Pepoli e Gozzadini si allearono contro il nemico comune, ovvero lo stesso
Cardinale, poi, perché, ritornando, potemmo contattare la popolazione per
farcela nuovamente amica. —
E fu proprio un Gozzadini, Brandiligio, a
smuovere i bolognesi perché si ribellassero al Cardinale. —
Sì, ma fui io a convincere Beltrando del
Poggetto, asserragliatosi nella Rocca di Galliera, ad abbandonare la città
senza difenderla con le armi, per evitare inutili spargimenti di sangue. —
Eliminato il nemico comune, Scacchesi e
Maltraversi ripresero a guardarsi in cagnesco, come sedici anni prima. —
Era inevitabile, ma solo per pochi mesi,
perché noi riprendemmo il nostro potere e i Gozzadini dovettero ritornare in
esilio. E non mi tiri fuori, adesso, la storia che io ho usato sotterfugi,
allontanando Bradiligi dai suoi seguaci per poterli sconfiggere meglio! —
Così si dice… —
Io e Bradiligio eravamo veramente amici e ci
rispettavamo a vicenda. Quando le nostre fazioni vennero in lotto aperta, in
piazza Maggiore, io gli dissi che era meglio star fuori dalla mischia e far
sì che fossero gli altri a correre di persona i pericoli maggiori. Fu
d’accordo e ci ritirammo nel mio palazzo al sicuro, in attesa di conoscere il
risultato dello “spareggio”. Vinse la mio squadra, lui mi salutò e se ne
andò. —
Lei diventa a questo punto Signore di
Bologna. —
Per dieci anni. Il Consiglio degli Anziani mi
nominò “Capo del Popolo”, mentre il Consiglio del Popolo inventò per me una
carica nuova, quella di “Perpetuo Conservatore e Governatore del Comune, del
Popolo e del Territorio Bolognese”. Nomine giuridicamente ineccepibile e sancita
ufficialmente, come quella ottenuta poi dallo Stato Pontificio, quale suo
Vicario. Così, io – ripeto, unico nella storia della signoria di Bologna –
divenni a tutti gli effetti Capo assoluto della città, pur rimanendo essa
nell’orbita politica dello Stato Pontificio. —
Come furono i dieci anni del suo governo? —
I Bolognesi non ebbero certa da lamentarsi.
A parte il periodi di pace reale che attraversarono, non poche furono le mie
iniziative per migliorare la città dal punto di vista delle leggi e da quello
urbanistico. Migliorai le disposizioni relative al commercio, dettai norme
sulle procedure penali, feci funzionare meglio la giustizia e tante altre
cose sui cui non mi dilungo per non sembrare vanitoso. Furono dieci anni
senza guerre. Si figuri che pagai di persona 10.000 fiorini ad una Compagnia
di Ventura, affinché nel suo scorazzare per l’Italia, lasciasse tranquilla
Bologna. —
Se tutto ciò è vero e non dubito, come mai
il suo palazzo di via Castiglione più che ad una dimora gentilizia
rassomiglia ad una vera e propria fortezza difensiva.? —
Se uno si scotta, la volta dopo sta più
attento. L’esperienza di mio padre, prima osannato e poi, all’improvviso,
quasi linciato, mi aveva reso molto cauto nei confronti della gente. Ora io
non discuto di essere stato il padrone di Bologna e di aver tolto ogni potere
reale alle istituzioni, né di aver curato i miei interessi sfruttando la mia
posizione egemonica, ma tutto ciò non fu certamente a scapito della città.
Credo che il dolore dei cittadini quando morì sia stato veramente sincero. —
Anche gli storici sono propensi a
riconoscere i meriti che ha avuto. Ma i neri che Bologna dovette affrontare
alla sua morte, sono da attribuire ai Pepoli, specie ai suoi figlio Giovanni
e Giacomo. Non le sembra? —
Non, non direi! È ovvio che come padre io
sia portato a difenderli, ma essi furono decisamente scavalcati da eventi più
grandi di loro. E se è vero che preferirono vendere Bologna ai Visconti di
Milano, piuttosto che lottare per mantenerla indipendente, è anche vero che
se non avesse fatto così, avrebbe aggiunto lutti, senza evitare tutti quelli
che la città ebbe poi a subire. Bologna, mi creda, compressa fra potenze
quali Milano e Firenze, con Venezia non lontana, continuamente sotto le mira
dello Stato Pontificio, con scaligeri ed Estensi alle porte, non l’avrebbe
salvata nessuno! —
Forse è vero! Ma se ci fosse stato lei,
Signor Taddeo, ci avrebbe almeno provato. —
Mah! |