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Bologna sconfigge l’impero ROLANDINO DE’ PASSEGGERI UN NOTAIO ALLA TESTA DEL LIBERO COMUNE. —
M’inchino, Messere, a colui che nel 1200 fu
il difensore del libero Comune di Bologna. —
Esimio signore, siamo qui per un’interista o
per tessere lodi? Venga al concreto, la prego. —
Sì è giusto! Lei, infatti, fu una persona
concreta, poche parole e molti fatti. —
Almeno ho cercato. Nel 1200 Bologna era una
delle più importanti città d’Italia ed il suo Comune era retta da una forma
democratica molto avanzata. Solo fatti concreti potevano salvaguardare la città
dai pericoli che la minacciavano: leggi ingiuste, imperatori strafottenti,
nobili avidi di potere… I fiumi di parole non hanno mai aiutato la democrazia! —
Lei messere, nacque nel 1210 da umile
famiglia, vero? —
Sì, ma ciò non m’impedì studiare e di
laurearmi in uno dei dottorati più difficile, quello notarile: divenni un
qualificato professionista molto presto, a ventiquattro anni. Lo dico non per
pavoneggiarmi, ma per dimostrare che a Bologna esisteva una vera democrazia e
che in essa si poteva diventare qualcuno senza essere necessariamente di
nobile famiglia… senza “tessera di partito”, come direste oggi. —
Non solo, però, come notaio lei ebbe una
fama che valicò e di molto i confini di Bologna. —
Non lo posso negare. Avevo raccolto le mie
esperienze professionali in un libro, la “Summa artis notariae” e in essa
spiegavo che la stesura di un atto notarile deve chiarire il contenuto e non
renderlo equivoco… occorreva, insomma guardare al fatto che si codificava
nelle sue reale sostanza e concretezza. —
E il libro fu adottato da tutti i notai
d’Europa, come se si trattasse di un Vangelo per la loro professione. Bene!
Abbiamo visto gli inizia della sua carriera, ma lei fu anche il maggiore
esponente politico della città ed è questo che c’interessa particolarmente.
Come andavano le cose a Bologna nel secolo che vide lei, messere,
protagonista? —
Non è facile districarsi in due parole nei
complicati eventi di quell’epoca. Come ho detto, Bologna aveva raggiunto un
ottimo ordinamento interno, nel quale molte cariche ed organismi importati
erano in mano al partito popolare, ovvero alle “Arti”, specie di associazioni
di categoria nelle quali s’iscrivevano, a seconda della loro attività, coloro
che svolgevano un lavoro professionale o produttivo: notai, banchieri,
macellai, farmacisti, pescivendoli, ecc. ecc. —
Erano molto importanti queste associazioni? —
Moltissimo. Si potrebbe dire che nella
Bologna del ‘200, “non si moveva foglia, che l’arte non voglia” Il cittadino
con una carica partecipava di persona alla politica della città e difendeva
interessi collettivi. Forse, solo la “polis” greca aveva raggiunto una
struttura tanto democratica. —
Anche militarmente le arti ebbero diretta
competenza? —
Sì ma non subito: istituirono le Compagnie
delle armi, vere e proprie milizia cittadine sempre pronte a correre in aiuto
delle istituzioni e della libertà di Bologna. —
Si deve presumere, quindi, che il suo secolo
fosse abbastanza tranquillo… o no? —
Tranquillo il ‘200? Vogliamo scherzare! Più
uno stato è libero e più deve difendersi, sia all’interno che all’esterno. Le
prime lotte che il Comune dovette affrontare furono quelle contro i feudatari
ed i signorotti che si arroccavano nei loro castelli addossati sui monti
prospicienti la città. Ci volle tutto un secolo per conquistare le rocche di
Bazzano, Monteveglio, Serravalle, Monzuno, Svignano… E mentre si stabilizzava
il monte, a valle c’erano altre preoccupazioni. —
Le altre città e gli altri comuni vicini. —
Non solo, ma anche quelli lombardi e veneti.
Furono oltre cento le guerre che Bologna sostenne in quel secolo… in pratica
una all’anno! —
Poi c’era l’imperatore. —
Sì, ma Bologna era una città molto potente e
se l’impero si voleva riprendere l’Italia settentrionale, doveva necessariamente
entrare in conflitto con la mia città. —
Cosa che Federico II fece nel 1249. —
Ma gli andò male! Bologna era guelfa, ovvero
contraria all’imperatore e aveva contribuito a strappare Ferrara ai partito
imperiale, aiutando Faenza assediata dallo stesso Federico II, partecipando
alla battaglia di Parma dove l’esercito regio venne sconfitto. Occorreva
quindi colpire Bologna e a tal fine, fu inviato con un grosso esercito Enzo,
figlio prediletto di Federico che lo aveva nominato re di Sardegna e suo
Vicario Generale. I Bolognesi non aspettarono che gli imperiali arrivassero
sotto le mura della città, ma li affrontarono a Fossalta, presso Modena, dove
in uno scontro memorabile, sconfissero i nemici e catturarono lo stesso Re
Enzo. —
Sulla battaglia di Fossalta e sulla
prigionia di Re Enzo a Bologna sono nate molte leggende. C’è qualcosa di
vero? —
Anche se ci fosse, non avrebbe nessuna
importanza storica. La cosa concreta fu che con quella battaglia si ebbe il
definitivo declino del potere imperiale nell’Italia settentrionale e,
contemporaneamente, il sorgere della reale egemonia di Bologna. Tutte le
città romagnole richiesero la sua alleanza; Venezia fu sconfitta a cerchia
dai Bolognesi in un’altra battaglia, questa volta – incredibile a credersi –
navale, perdendo così Cervia e le sue importanti saline; Milano stessa, la
grande Milano, chiese aiuto ai bolognesi per sue questioni. —
D’accordo… ma anche le leggende possono
interessare, come quella che riguarda personalmente lei, messere, e Federico
II. —
E va ben! Diciamo questo fatto ormai
leggendario! L’imperatore tentò di porre un ultimatum a Bologna, perché
liberasse il figlio, ma i bolognesi risposero che Re Enzo apparteneva ormai a
loro per diritto e che lo avrebbero tenuto in ostaggio costasse quel che
costasse. “Se Federico – notificarono – verrà coi suoi eserciti, troverà i
bolognesi pronti con le spade in pugno per resistere come Leoni”. —
Dica la verità, in quella risposta c’era il
suo zampino? —
Sì, la redassi io! Ma troppo spesso si è
confuso ciò che ho scritto in qualità di notaio, con ciò che ho fatto. Era il
popolo bolognese che decideva; a me competeva solo trasformare le delibere in
atti ufficiali. La mia partecipazione alle decisioni è un aspetto del tutto
secondario! —
Fu così anche per le “Leggi del Paradiso”? —
Senza dubbio! Fu Bologna a deliberarle ed io
a redigerla. Mai come in questo caso, fui tanto felice di realizzare per
iscritto una simile conquista sociale. —
Di che cosa si trattava? —
Era la legge che aboliva la schiavitù.
Datata 26 giugno 1256, fu attuata nell’arco di un anno con la liberazione di
tutti gli schiavi bolognesi: quasi seimila persone, riscattate con denaro
pubblico da 379 padroni. Nella storia dell’uomo mai ciò era accaduto; la
schiavitù era stata eliminata non con un’affermazione di teorica principio, o
per semplice dettato legislativo, ma con reale, concreta attuazione. —
Evento effettivamente notevole, anche se per
lo più sconosciuto. Che succede a Bologna, nella seconda metà del ‘200? —
Forte in politica estera, la città lo è meno
in quella interna. Due famiglie vengono identificate come portatrici di due
diverse politiche: i Geremei, guelfi e fautori del partito popolare, e i
Lambertazzi, ghibellini sostenitori di quello aristocratico. Quando queste
famiglie sostituiscono al dibattito la forza, anche il popolo scende in campo
e così, proprio perché Bologna è sostanzialmente popolare, i Lambertazzi sono
costretti a più riprese ad abbandonare la città, sconfitti ripetutamente in
guerre civili dannosissime per tutti. —
A questo punto, però, lei, messere, non è
più solo il fido scrivano del comune, ma un vero e proprio protagonista. —
Sì, per difendere le istituzioni, costituii
e fui a capo della Compagnia della Croce, autorizzato dagli organi di governo,
che mi nominarono anche “anziano perpetuo”. Portai avanti l’emanazione di
leggi speciali che riaffermassero la volontà democratica della città… ma
ormai quel “certo non so che” che aveva reso Bologna la città guida del secolo,
si era definitivamente incrinato e la sua decadenza come libero comune si può
dire fosse già incominciata. —
Cosa succede? —
Alla mia morte, siamo quasi nel ‘300,
Bologna non è più città di popolo, ma di pochi nobili e il Comune non è più
consesso democratico di cittadini, ma un’entità dominata da un “signore”. —
Si apre una nuova epoca e si chiude questa
intervista. La ringrazio, messere, per la chiarezza tutta “notarile” che ha
usato. —
Mio dovere. |