LUCIA E IL CAVALIERE

Da una leggenda mistica del XII secolo

 

1. Lucia, la dolce, bionda Lucia

Lucia, la dolce, bionda, piccola Lucia...: Lucia, per la quale era salito per anni sugli alberi a prendere, incurante dei pericoli, le fragranti ciliege di primavera, le vellutate pesche d’estate e i teneri fichi d’autunno...; Lucia, con cui aveva giocato, scherzato, camminato e vissuto insieme le tre più belle stagioni della vita...; Lucia, a cui aveva dedicato con ilare gioia la sua infanzia, con profondo affetto la sua adolescenza, e con indicibile amore la sua giovinezza...; Lucia, la sua dolce, bionda, piccola Lucia, era entrata in convento.

Nota 1

È accertato che nella zona esisteva nel XII  secolo una rocca o “castrum”; nel 1176, infatti, i bolognesi mossero contro Ozzano dov’era l’esercito di Federico Barbarossa, senza riuscire ad espugnarla.

Non ci poteva credere, non voleva crederlo, era impossibile!


L’antico borgo medioevale
di San Pietro di Ozzano

Ripensava a quando, ancora  bambini, giocavano nella corte della Rocca di Ozzano (nota 1). Lei, povera figlia di gente povera, dal fisico minuto, coi capelli ricci e gli occhi azzurri, correva con brevi, instabili passi fra il pozzo e le stalle, senza lasciare mai la piccola bambola di pezza che le aveva fatto la mamma; lui, agiato figlio del tenutario del castello, con piede già più agile, la rincorreva facendo il lupo, ma ridendo felice con essa quando la raggiungeva e le prendeva il braccio. Ripensava ad un autunno, quando, lungo il greto del fiume, era caduto fra i rovi e, seppure graffiato, le aveva portato una grande manciata di more, rassicurandola che non erano ferite quelle che aveva in volto e nelle braccia, ma il succo rosso dei frutti schiacciati. Ripensava a quando, adolescenti, assieme agli altri coetanei del paese, andavano la mattina in chiesa ad assistere alla messa di Frate Ubaldo, un benedettino che poi insegnava le preghiere ed I Vangeli; e mentre lui narrava e spiegava, loro erano intenti a parlottare di cosa avrebbero fatto dopo, quando ancora liberi, sarebbero andati a giocare nei campi, lungo il fiume e sulle colline.


La torre medievale di
 S. Pietro d’Ozzano

E ripensò a quando era partito per andare nella grande città per prepararsi ad affrontare la sua futura carriera. Aveva sedici anni, mentre Lucia ne aveva quindici. Si salutarono con la promessa, non detta ma giurata con lo sguardo, che si sarebbero ritrovati.

Il tempo era passato e lui era diventato cavaliere, con tanto destriero, armatura, elmo piumato e spada; aveva ricevuto il plauso dei signori, l’ammirazione delle donne, il rispetto dei compagni, ma il suo pensiero era sempre ad Ozzano ed era certo che, quando vi sarebbe ritornato, Luci sarebbe stata lì ad aspettarlo.

Ora che la speranza - o meglio, la certezza - si era realizzata e che i Reggenti della città l’avevano inviato alla Rocca come capitano, Lucia non c’era più, non era lì ad attenderlo, ma aveva scelto un Sposo diverso, uno Sposo tanto grande e potente che nessuno, neppure un cavaliere, avrebbe potuto affrontare e vincere, perchè contro di Lui non erano la spada e l’addestramento che potevano farsi valere.

Lucia ora era una monaca: aveva coperto col saio tutte le umane esperienze, sia quelle belle, sia quelle brutte; aveva legato col cilicio la sua anima a Dio; aveva giurato sul Crocefisso la sua eterna fedeltà a Gesù, suo sposo, ora e per sempre.

2. La volontà di Dio

Nota 2

Del personaggio maschile di questa leggenda la tradizione non riporta alcuna indicazione utile a identificarlo.

Sembra però che fosse un nobile bolognese della famiglia dei Fava, ma altre fonti lo indicano semplicemente come un soldato.

Visti i dubbi, si è pensato suggestivo mantenere per esso l’anonimato e poiché la storia si svolge in periodo medioevale, è stato altrettanto suggestivo indicarlo come “cavaliere”.

Nota 3

Il Convento femminile camaldolese di S. Caterina fu eretto a Settefonti nel 1097 e la Beata Lucia ne fu Badessa dal 1142 al 1158.

 

Padre Ubaldo, com’è possibile? - chiese il Cavaliere (nota 2) al vecchio frate - Come è possibile una simile ingiustizia? Lucia era troppo lieta della vita, troppa attaccata al mondo, troppo libera, per chiudersi in clausura. Che mistero è mai questo?»

«Gesù ha voluto così ed ha proposto a Lucia di unirsi a Lui. Essa ha accolto l’invito ed ha raggiunto quella felicità che noi potremo godere solo alla nostra morte e sempreché avremo rispettato la volontà di Dio. Non c’è nulla da capire, è il mistero della Fede, che alle nostre menti mortali può sembrare incomprensibile, ma che fa parte del disegno della Divina Provvidenza.»

«Ma essa era mia, non era di Dio! »

«Non bestemmiare! Tutti noi siamo di Dio, tutti, nessuno escluso! E se proprio non credi nel volere dell’Altissimo, credi almeno nella volontà di Lucia. Lei ha fatto una scelta e, credimi, è quella migliore: vive in preghiera nel monastero di Settefonti (nota 3) col suo nuovo Sposo ed è felice in eterno. Con te sarebbe stata felice solo in terra e, forse, neppure quello! »


L’Abbazia di Monte Armato, ad Ozzano

Il Cavaliere scosse la testa: le parole del frate, per quanto suadenti e pervase di santità, non lo avevano convinto; tutt’altro, gli avevano rafforzato la convinzione di essere nel giusto e che ingiusto era Dio, che con la Sua potenza e la Sua onnipresenza aveva approfittato della debolezza di una fanciulla per sottrarla allo sposo a cui la natura l’aveva destinata fin dalla nascita.

Era un cavaliere e aveva giurato di battersi contro le ingiustizie, qualunque fossero gli ostacoli da affrontare, anche i più difficili ed insormontabili; aveva giurato davanti a quel Dio contro cui ora doveva battersi e proprio su questa contraddizione basava il convincimento di dover agire.

Così, mentre il giovane si alzava per allontanarsi da Padre Ubaldo, il frate gli lesse negli occhi la tremenda sfida che si apprestava a portare a Dio e, abbassando la testa sul crocefisso che aveva legato al cilicio pregò in silenzio:

«Padre nostro che sei nel cielo.... perdonalo fin da ora. Egli ha la mente ottenebrata, ma la sua fede in Te è sempre salda. Tu, che sei l’unico a poterlo fare, aiutalo a rispettare le Tue volontà che, sempre e comunque sono volontà di giustizia e di amore per noi poveri essere mortali. Amen.»

3. Alla ricerca di Lucia

«Silvio, prepara i cavalli che andiamo in perlustrazione sul colle di Settefonti.» Ordinò il Cavaliere al suo scudiero.

«Subito, Messere... Settefonti? Ma che cosa andiamo a perlustrare da quella parte? »

«Ti ho dato un ordine, mi sembra e, quindi, obbedisci senza commenti! »

Silvio si avviò alle stalle della rocca scotendo la testa. A parte l’irragionevolezza di arrampicarsi, con quel caldo, su di un colle impervio ove non poteva esserci alcunché da controllare, lo aveva sorpreso l’insolito tono della voce del suo capitano e padrone, un tono duro, quasi astioso, molto diverso da quello sempre usato, anche in occasione di ordini perentori e decisi.


Cavaliere medioevale con scudiero
 (ricostruzione)

«Bhà! - pensò - Valli a capire questi cavalieri! Era tutto allegro quando a saputo che ritornava ad Ozzano ed ora che c’è, va giù di testa! ».

Preparò il destriero del padrone senza gualdrappa ed armatura, perchè fosse più agile nell’ascendere i monti e per non fargli soffrire troppo il caldo. Appese alla sella solo la spada, mentre alla sua legò la lunga lancia e lo scudo leggero. L’elmo e l’armatura li lasciò, tanto non ci sarebbe stato da combattere là dove andavano. Ma quando si presentò al suo Cavaliere, questo s’inviperì:

«Non andiamo mica in una delle tue bettole! - urlò minaccioso al servo - il mio cavallo lo voglio armato come si conviene ad un cavaliere in missione. Voglio la mia armatura, la mia mazza, il mio elmo e le mie insegne... e fa presto, se non vuoi sapere come brucia la corda salata sulla schiena!».

Silvio scappò via tirando a fatica I cavalli che, una volta usciti dalla stalla e sentito l’odore della campagna, non vi volevano più entrare.

«Accidenti a voi - pensò lo scudiero tutto sudato ed affaticato - e accidenti al padrone! E’ diventato matto davvero! Come si fa a portarsi dietro un armamentario simile... » Eseguì furibondo gli ordini e i cavalli, quasi consapevoli che quella giornata non sarebbe stata certamente facile, reagirono aspramente, come a voler condividere il pensiero di Silvio.

Il Cavaliere salì sul destriero ed era veramente uno spettacolo il vederlo armato con elmo, spallacci, pettorale e gambali che brillavano argentati al sole, mentre un leggero vento sollevava il mantello, agitava le piume del cimiero e faceva garrire al vento lo stendardo della lancia. A piccolo trotto, guidò il cavallo verso la porta della Rocca, diede ordine di aprire i battenti e di abbassare il ponte levatoio ed uscì seguito dallo scudiero, anch’esso a cavallo.

4. Il Vespro del convento

I due cavalieri accaldati e sudati si fermarono a Settefonti ed abbeverarono ad una delle tante polle d’acqua i cavalli ansanti. Erano le cinque di sera e finalmente, dopo una giornata di sole cocente, inusitato per il mese d’ottobre, si cominciò a sentire la fresca brezza che fu per essi e per gli animali un vero toccasana.


I resti dell’Abbazia di Settefonti
e della Chiesa di S. Maria

Di fronte a loro, la chiesetta di Settefonti era deserta, ma la porta aperta indicava che qualcuno era atteso in essa; alla sommità di un vicino dirupo a strapiombo sulla chiesa, s’intravedeva il monastero, il cui modesto portale, al suono del Vespro, si aprì facendo uscire, lenta ordinata e silenziosa, una fila di candide suore in preghiera.

Lungo un sentiero, scomparendo e riapparendo fra gli alberi ed i cespugli del bosco, esse si avviavano alla chiesetta per la messa serale e la loro visione dava un senso inusitato di pace, reso ancor più mistico dal leggero rintocco della campana che sottolineava, più che infrangere, il silenzio quasi innaturale del luogo.

Il Cavaliere guardò le suore seguendone il lento cammino e scorse fra esse Lucia: il viso dolce e delicato era sempre lo stesso, ma quello sprizzare di gioia e quella vitalità che una volta la rendevano ai suoi occhi bellissima, ora non c’erano più, erano stati sostituiti da una grande serenità che, pur mutandola, la rendeva ancora più bella e così, nel giovane, aumentò il desiderio della donna che aveva amato da sempre e in modo tanto intenso.


Una Suora
(da un dipinto di C. Cignani)

Si tolse l’elmo e lo porse senza proferir parola a Silvio, poi si avviò verso la chiesa dove già erano entrate le suore: l’onice che copriva le due piccole bifore lasciava entrare un debole raggio di sole e nella penombra, in piedi seminascosto da una colonna, egli potè godere della vista di Lucia, la cui bellezza era esaltata dalla tremula luce della candela che recava in mano.

La messa finì e, come erano entrate, le suore uscirono lentamente in fila, a capo chino, con le mani giunte sul petto e a passi cadenzati. Ad una ad una passarono davanti al Cavaliere senza vederlo, prese com’erano dalla loro rapita devozione. Passò anche Lucia e il giovane non potè più trattenere la voce:

«Lucia, son’io, sono tornato».

Quel richiamo sommesso, quella voce timida che solo Lucia udì, sembrarono rintronare nella piccola chiesa come un grido di disperazione.

5. Fra speranza, disperazione e fede

Lucia, con la partenza del suo compagno, aveva visto la fine della sua giovinezza: il suo piccolo mondo, fatto di amicizia ed effetto verso colui che aveva rappresentato l’unica gioia della sua vita, non esisteva più.

Ozzano le appariva ora nella sua più deludente realtà: un paesucolo di poche case, ove miseria e dolori si potevano lenire unicamente con la speranza e la fede; la carità no, perchè essa era possibile soltanto ai benestanti e a Ozzano di questi ve n’erano ben pochi e poco propensi a dare.

Fu sorretta per lungo tempo dalla speranza di un rapido ritorno di chi l’aveva abbandonata, ma I giorni, I mesi, gli anni trascorsero senza che per lei vi fosse alcun conforto e furono anni lunghissimi, di una miseria indescrivibile, una miseria che avrebbe fatto dimenticare a chiunque l’esistenza di un amore lontano.


Ozzano in un disegno del ‘500

Ogni tanto lavorava nei campi o si prestava a qualche infimo servizio ed erano quelli gli unici momenti in cui sembrava rivivere. Un altro conforto gli giungeva da frate Ubaldo, che spesso andava a trovare nella cappella vicino alla rocca, o che talvolta le veniva a far visita. Non era solo un sostegno morale, ma anche materiale, perchè il sant’uomo, in quelle occasioni, non mancava mai di darle un pezzo di pane o un po’ di frutta.

Fu durante una delle visita alla cappella, un giorno in cui Padre Ubaldo era assente e lei lo aspettava, che Lucia sentì all’improvviso la sua vocazione. Genuflessa, levò gli occhi verso il crocefisso come per meglio far sentire la sua preghiera a Dio e vide che Gesù la guardava; non c’era dubbio, guardava proprio lei e le sorrideva, nonostante le tremende sofferenze che stava patendo su quella croce, con quei neri chiodi alle mani e ai piedi, con quelle spine in fronte, con quella ferita profonda del costato.

La sua preghiera si fece più intensa:

«Gesù, oh mio buon Gesù, che soccorri i deboli e che sorridi pur nel dolore che Ti lacera, dammi la forza di vivere in Te e con Te e per sempre, per aiutarTi nella Tua opera misericordiosa verso chi patisce. Oh come vorrei che le Tue sofferenze per il male che c’è nel mondo fossero le mie per sopportarle a tuo nome in piena umiltà, senza nulla chiederTi e dando tutta me stessa a Te, adesso e per l’eternità.

Gesù continuò a guardare Lucia ed un alito di vita, di speranza e di carità sembrò affluire da quella statua al dolce viso della ragazza, in una simbiosi eterea e sovrannaturale. Lucia era in estasi e così rapita uscì dalla cappella dirigendosi verso Settefonti, senza nulla vedere di ciò che attraversava camminando: la corte della Rocca, dove operai e servi erano indaffarati in miseri lavori; l’arco ed il ponte levatoio, dove sostavano annoiate alcune sentinelle; i sentieri fra I campi, dove contadini falciavano il poco grano cresciuto; il greto del fiume, in cui alcune donne lavavano poveri stracci; il bosco, dove i raccoglitori di legna si caricavano in spalla gli sterpi... Era il suo piccolo mondo terreno da cui usciva per sempre, era la sua infanzia, la sua adolescenza, la sua prima giovinezza che finivano in nulla, per aprirle una nuova stagione di beatitudine.

Così Lucia divenne monaca, dimentica di tutto, se non della felicità intima e segreta che il suo nuovo stato le aveva portato.


Cripta dei SS. Naborre e Felice
in Santo Stefano

Ed ora, nella chiesetta ove era andata come ogni giorno, da anni, a recitare il Vespro, s’era sentita chiamare: «Lucia, sono io, sono tornato!» ed aveva visto quel volto che un tempo tanto le era stato familiare.

Non poteva essere una voce vera, non poteva essere un volto reale; quell’uomo per lei non esisteva più, come non esisteva più il sentimento che l’aveva unita a lui. E allora, perchè tanto turbamento in lei, tanta paura, tanta improvvisa debolezza nel suo spirito? Perchè le sue preghiere si erano interrotte all’istante e il suo pensiero era stato portato altrove, ai tempi in cui non era ancora sposa di Dio? Perchè sentiva quel desiderio irrefrenabile di girarsi, mentre rientrava in convento, per vedere se lui era là, se era tornato, se era vero?

«Dio misericordioso - pregò - Dio buono, Dio che sostieni che ha fede in Te, aiutami Tu...»

6. Dalla Rocca al Convento

Silvio guardò il padrone che usciva dalla chiesetta come inebetito e assente.

«Tutto bene, messere? Com’è stata la messa? » Gli chiese con tono titubante senza nascondere un senso di preoccupazione per lo stato confusionale in cui il padrone si trovava e che lui non poteva capire.

Ma il Cavaliere non rispose; forse non sentì neppure la timorosa domanda; fissando intensamente il convento come per poterne penetrare con lo sguardo le grosse mura, salì a cavallo quasi a fatica e l’animale, sbrigliando, si avviò con docile passo e senza guida verso il sentiero che portava a valle.

Anche Silvio, sempre più sbalordito, salì a cavallo e a piccolo trotto raggiunse il padrone, affiancandosi ad esso.

«Che c’è messere? Qualcosa che non va? Lo dica al suo fido scudiero.»

Ma il Cavaliere non rispose.

«E’ stata calda la giornata, oggi, vero? Ha visto come sbavavano i cavalli e come si sono buttati sulla fonte, appena giunti alla chiesa?... Domani dovranno riposare e anche noi dovremo farlo!.. Andiamo alla locanda stasera? C’è il vino nuovo e l’oste mi ha detto che l’annata è stata favolosa...»

Le parole cadevano nel vuoto e così Silvio, scotendo il capo poco convinto di tutta la faccenda, si mise in silenzio pur continuando a borbottare fra sé e sé. Solo quando i due entrarono di nuovo in rocca e furono scesi da cavallo, il suo padrone aprì bocca:

«Domani, Silvio, si torna al convento e dobbiamo esserci alla stessa ora, per il Vespro. Sii puntuale.»

«Anche domani? Ma a che fare, messere? », osò domandare il servo, ma il Cavaliere gli aveva già voltato le spalle per rientrare nei propri appartamenti. Silvio rimase esterrefatto e rivolgendosi ai cavalli li apostrofò, dicendo: «E voi due non fate i somari, che questa sera sono stanco morto ed arrabbiato.» Quindi strattonando le briglie e tirandoli a forza, li condusse nelle stalle.

Mentre li accudiva con la solita strigliata serale, Silvio ripensava a quanto aveva visto a Settefonti e continuava a non capire. Lo meravigliava non tanto l’essere andato in perlustrazione su colli impervi e deserti, rendendo faticosa una giornata inutile, quanto lo strano atteggiamento del padrone all’uscita dalla chiesa. Che avesse avuto un’ispirazione mistica? Con tutti quei preti, suore e frati che si aggiravano in quel tempo, con tutte quelle chiese sparse ovunque, con tutti quei monasteri che pullulavano di falsi profeti, non c’era da meravigliarsi se un giovane militare potesse cambiare idea.

«Oh, ma domani ci penso io - concluse chiudendo i portoni della stalla e avviandosi all’osteria - Ci penso io a rimettere in sesto il mio padrone e a farlo ritornare in sé. »

Le buone intenzioni di Silvio rimasero, però, tali. Non solo la scena a cui aveva assistito quel giorno d’ottobre si ripeté l’indomani, ma anche il posdomani e poi ancora, ogni giorno che Dio mandava in terra.

Come per un pellegrinaggio, tutti i pomeriggi, i due salivano a Settefonti: Silvio badava i destrieri e il Cavaliere entrava in chiesa per assistere al rito del Vespro; poi usciva e restava sul sagrato per guardare la lenta fila delle suore che rientravano in convento; il tutto nel più profondo silenzio, se si escludevano i tocchi di campana, la recita della messa e il canto dell’Ave Maria che si innalzava al cielo. Il fatto ormai diventava un rito: intenso, ripetitivo e metodico.

Silvio continuava a scervellarsi per capire, ma non si riusciva e la cosa lo rendeva ancora più arrabbiato. Se solo fosse entrato anche lui nella chiesa e avesse osservato il punto verso cui si dirigeva lo sguardo intenso del padrone e avesse visto che c’era una suora bellissima che, mentre pregava, ogni tanto alzava gli occhi per incrociarli con i suoi, allora, forse, Silvio avrebbe non diciamo risolta l’arcano, ma almeno ne avrebbe compreso più facilmente la sostanza. Ma Silvio restava fuori e continuava ad arrabbiarsi in includenti pensieri e più si arrabbiava e più il mistero cresceva.

7. Amore sacro e profano


La cella di S. Domenico
(1218 - Convento di San Domenico)

Nel convento, chiusa nella sua spoglia cella, Lucia stava attraversando giorni di vero turbamento. Se la prima volta che aveva visto il suo antico innamorato aveva creduto di essere stata ingannata da un miraggio; se il giorno dopo aveva sperato che la presenza del Cavaliere in chiesa fosse una visione irreale; se in seguito aveva pregato Dio di cancellarle dagli occhi quella che disperatamente si augurava fosse la materializzazione di una non voluta reminiscenza; ora era certa, tragicamente certa che l’uomo era reale e che l’aspettava per sottrarla a Dio e per riunirsi a lei.

Ciò che più la sconcertava, alterandone lo stato, fino a quel momento dedicato completamente a Dio, era la consapevolezza di non essere stata insensibile al suo ritorno, di aver risentito per il giovane un fremito fisico ma anche sentimentale che da anni non provava più e che credeva non facesse più parte della sua vita; un fremito che non avrebbe più dovuto avere, almeno con quell’intensità con cui l’aveva subito.

L’amore terreno stava tornando e ciò la terrorizzava.

Parlò della cosa con il suo confessore, frate Ubaldo, che ogni settimana saliva in convento, ma il consiglio che ebbe dal monaco fu solo quello di credere ancora in Dio, l’unico a poterla aiutare.


Un frate cappuccino
(da una tela del Guercino)

«Ora giungerà l’inverno - le disse Ubaldo - e la neve, il gelo, le tormente lo costringeranno a restare a valle. Per mesi non lo rivedrai e così sarà più facile per ritornare serena e ritrovare Dio senza essere indotta in tentazione»

Ma il frate, che ben conosceva la potenza d’amore di Dio per le creature che a lui dedicano fede, non poteva saper quale forza ha anche l’amore terreno, quando c’è e quando è vero.

Il colle di Settefonti, per quattro mesi, da fine novembre a metà marzo, fu prima sventagliato da gelidi venti, poi assediato da spaventose tormente, quindi ricoperto da metri di neve. Era diventato un colle isolato e irraggiungibile per chiunque, ma non per il Cavaliere, il quale imperterrito e sorretto dal desiderio di vedere colei che amava, ogni giorno, tutti i giorni, senza mai mancare, era lì, al Vespro, davanti alla chiesa.

La disperazione di Lucia aumentò a tal punto ch’essa si ammalò, tanto da rischiare la morte. Forse la desiderò anche, come unica soluzione per liberarsi dall’angoscia che l’attanagliava, nell’intima lotta che amore sacro e amore profano combattevano dentro di lei e per lei.

Per due mesi stette sdraiata sul suo misero giaciglio, fra febbri convulse e deliri e negli unici brevi momenti in cui la sua mente si ristabiliva, la domanda che poneva alle consorelle non cambiava mai: «Lui è là?» E la risposta non cambiava mai: «Sì, come tutte le sere egli è là, davanti alla chiesa.»

Venne la primavera e con i primi tepori Lucia si ristabilì. La prima sera che potè andare anch’essa al vespro, pregò ardentemente Dio:

«Mio Signore, se volevi mettere alla prova la mia fede, sappi che l’amore che Ti porto, sia pure scosso, sia pure sconvolto, sia pure martoriato, non è mutato. Ti prego, Dio mio, non insistere, accontenTi di quanto ho sofferto e fa sì che questa sera io possa pregarTi ancora nella chiesa senza che lui ci sia. Dio mio ... non m’indurre in tentazione, ma liberami dal male!»

Uscì dal convento e s’incamminò verso la Chiesa con la testa bassa, ad occhi quasi chiusi: non voleva guardare, non voleva vedere, ma poi si decise e alzò gli occhi mormorando:

«Dio mio, aiutami tu!»

Il Cavaliere era ancora lì, nel solito posto, accanto al portale della chiesa e guardava. Lucia provò una stretta al cuore, si sentì mancare, non resse: cadde a terra lungo il sentiero priva di sensi ed il bianco del suo saio si confuse con le leggere falde di neve che ancora imbiancavano a chiazze il colle di Settefonti.

Alcune suore la raccolsero e, sorreggendola a fatica, la riportarono in convento, nella sua cella.

8. L’incontro

Alla sera dell’indomani, due suore si staccarono dalla fila e si diressero verso il Cavaliere che, come sempre, attendeva presso la chiesa.

«Messere - gli dissero - nostra sorella Lucia vi chiede di seguirci nella sua cella. Vuole parlarvi.»

Per la prima volta il giovane entrò in quel convento che per mesi e mesi aveva guardato da lontano, desiderando ardentemente di superarne la soglia. Attraversò un chiostro silenzioso, camminando fra due siepi piene di rose non ancora dischiuse; entrò in uno stretto corridoio imbiancato a calce e illuminato da un’ampia finestra che si apriva sul fondo; salì una scala di mattoni lucidi e raggiunse una spoglia celletta. Su di un giaciglio nudo, coperta da un lenzuolo e da un panno consunto, col capo sollevato da una dura trave, Lucia lo guardava e lui, che tanto l’aveva fissata, ora abbassò gli occhi, come a chiedere scusa del male che le stava facendo.

«Come stai?» gli chiese la suora.

«Lucia...», seppe solo dire il giovane, inginocchiandosi e baciando le mani dell’amata. Lei le ritrasse con sforzo sovrumano, dovuto sì alla debolezza del corpo, ma anche al dovere di evitare un contatto che desiderava.

«No, non puoi! Non devi toccarmi....»

«Sono qui, Lucia, non so se per chiederti perdono o per poterti amare ancora di più. So che questo momento è sacrilego e che dovrei rifuggire da essa, ma non posso, non voglio...»

«Tu lo puoi, perchè sai che solo la morte può infrangere quei voti che liberamente scelsi dedicando tutta me stessa a Dio e a Lui soltanto. Parti, abbandona questi luoghi, fammi ritrovare la mia pace, permettimi di riavvicinarmi al mio vero sposo, Gesù.»

«Partire... Per te che hai fede è stato facile. Per me è impossibile lasciare i luoghi che mi hanno fatto provare l’unico amore che conosco, quello che ho per te, quello umano, non quello divino.»

«Il tuo amore è per me una sofferenza e, più esso è grande e più io patisco. Se tu solo potessi immaginare i rimorsi e le angosce che la tua presenza mi procura, da tempo non saresti più qui. Devi partire in nome di quell’amore che provi per me, ti prego... O partirò io per quel dovere che mi sono assunta davanti a Cristo.»

«Non vederti più... Lucia, è una grande prova d’amore che mi chiedi. Partirò, ma non per dimenticarti, partirò solo perchè più diminuiranno le tue angosce e più il mio amore crescerà. Partirò, amore mio, da domani non mi vedrai più.»

«Che Dio ti benedica e che ti porti pace.»

Il Cavaliere uscì dalla cella e dal convento quasi di corsa, salì di slancio sul cavallo e lo spronò al galoppo lungo il sentiero. Non si fermò ad Ozzano, proseguì verso nord, verso la grande pianura che portava al fiume e scomparve all’orizzonte.

9. Sotto le mura di Gerusalemme


Crociati
(Ricostruzione moderna)

Nota 4

Si tratta evidentemente della II Crociata (1147-1149), almeno dalle date riferite al convento e alla Beata Lucia e al fatto che ad essa partecipò anche Federico Barbarossa, coevo alla storia narrata

 

Aveva cambiato il suo stemma con la grande croce rossa in campo bianco; aveva attraversato i mari su enormi barche spinte da tre file di remi; aveva raggiunto un paese senza alberi e dove il deserto era pieno d’insidie; aveva galoppato assieme a tanti altri cavalieri per la conquista di una città chiamata Gerusalemme (nota 4), che sembrava inespugnabile; aveva combattuto al grido di «Dio lo vuole» e si era scontrato con altri eroici combattenti che inneggiavano «Morte agli infedeli». Era diventato un crociato, uno dei più audaci, ma non lo faceva per Dio, lo faceva solo per se stesso, perchè aveva sempre impressa nella mente la frase che Lucia gli aveva detto: «Solo la morte può infrangere i miei Voti». E lui voleva morire, per aspettarla e unirsi a Lei per sempre e non gli importava dove, come, quando.

Ma la morte, che pure vedeva vicina, mentre falciava ogni giorno decine e decine di suoi compagni, mai lo raggiunse, mai lo scalfì; sembrava quasi che Dio, consapevole dei suoi desideri, gli impedisse anche di morire, pur di tenere a sé Lucia e far sì ch’egli non la potesse mai avere.


Ludovico Carracci
Conversione di S. Paolo
(particolare)

Durante una battaglia tremenda, la più sanguinosa che mai avesse affrontato, il Cavaliere cadde da cavallo e fu sopraffatto da una decina d’arabi. Era giunta l’ora di morire e per la prima volta in vita sua prego:

«Eccomi a te, Dio, che ho combattuto in terra: perdonami per il male che ho fatto; perdonami se ho voluto vivere; perdonami di essere stato uomo; perdonami di aver amato; perdonami, perdonami, perdonami tutto, ma comprendimi, Dio mio onnipotente... io l’amo ancora!»

Non morì. Fu catturato e rinchiuso incatenato in una prigione profonda come l’inferno, nera come il peccato e martoriante come il rimorso. Le catene gli corrodevano i polsi e le caviglie, la sete e la fame lo distruggevano lentamente; l’immobilità lo faceva quasi impazzire; ma non poteva morire. Il pensiero di Lucia lo faceva ancora vivere, gli leniva le ferite, lo dissetava, lo sfamava.

Ed una notte si compì il miracolo.

Per la prima volta da quando era prigioniero era riuscito a dormire tranquillo, senza incubi e senza sofferenze. All’improvviso e lentamente si sentì quasi sollevato da quel rigido tavolaccio su cui giaceva in catene, provando nel corpo tumefatto e martoriato una dolcissima sensazione di leggerezza; non sentiva più attorno a sé le ammuffite ed umidi pareti del carcere, ma la vivida luce del giorno, il limpido azzurro del cielo, il caldo ristoratore del sole. Stava sognando di volare e non volle aprire gli occhi per paura di perdere il piacere immenso che quella sensazione gli procurava. Poi sentì, vicina e suadente, una voce dolcissima:


La Pietà – particolare
(Amico Aspertini - San Petronio)

«Sono Lucia, sono accanto a te, apri gli occhi e guardami, non è un sogno.»

Era vero: Lucia era lì, bella come mai l’aveva vista, col viso accanto al suo e con le mani, le dolci, candide, carezzevoli mani, che gli reggevano la testa.

E la voce continuò a parlargli:

«Quando partisti il mio dolore fu tale che Dio in persona, nella sua infinita bontà, mi volle soccorre liberandomi da tutti quei patimenti che la tentazione del sacrilegio mi aveva portato. Ti ho visto prigioniero, mentre anche tu soffrivi con la stessa intensità ed ho pregato l’Altissimo di permettermi di liberarti. Mi è stato concesso e ti sto portando a Settefonti. Ti dissi un giorno che la vita non poteva permetterci di stare vicini e così è stato, nonostante la forza del nostro amore; sì, del nostro amore, perchè come tu mi amasti, così anch’io ti ho amato e t’amo ancora.

Il Cavaliere si svegliò all’improvviso e si guardò intorno. Il luogo ove ora giaceva era a lui notissimo: era Settefonti, col bosco, il sagrato della chiesetta, il convento, le sorgenti d’acqua che ritmavano il fruscio delle fronde. La campana suonava il Vespro e, sul sentiero, scendevano come sempre in fila le suore.

Nota 5

Il corpo e la tomba della Beata Lucia furono trasferite nel 1787 nella chiesa di S. Andrea, in località S. Pietro a 5 km. da Ozzano e qui sono anche le catene esposte del suo anonimo innamorato e la fonte dov’egli abbeverava il suo cavallo

Attese che la lenta processione terminasse ed entrò anche lui in chiesa, come aveva fatto mille volte. Davanti all’altare, una tomba di marmo portava incisa il nome di Lucia. Avanzò lentamente con lo sguardo fisso sul sarcofago e gli si inginocchiò dinanzi. Depose le sue catene sul coperchio come fossero un serto funerario, un serto a perenne memoria dell’amore che solo con la morte poteva esprimersi davanti agli uomini e davanti a Dio (nota 5).

Sostò un attimo in preghiera, poi uscì.

E di lui nulla più si seppe.

 

FINE